‘La donna pensa come ama, l’uomo ama come pensa.’
Paolo Mantegazza (1831-1910)
Ad ottant’anni dall’inizio del secondo dopoguerra, non si è ancora sicuri del rapporto degli italiani col sesso: è probabile che la modernità non sia arrivata a colpire e modificare il nostro pensiero, che rimane intatto negli strati più popolari e lontano dalla borghesia (alta o bassa che possa essere) più aperta al cambiamento per via culturale, economica o mediatica.
Oggi non abbiamo più il colore locale che nel secondo dopoguerra poteva mostrare, in maniera più precisa, in che modo gli italiani fossero capaci di ragionare sulla sessualità sesso e, in dialogo con i nuovi costumi, dilatare con i mezzi della morale liberale la loro ricerca del piacere.
Non abbiamo neanche più dei narratori attenti, abituati ad indagare e riproporre sullo schermo i cambiamenti in corso. Alberto Lattuada (1914-2005) è stato uno di quei registi che tra anni ‘40 e ‘80 è riuscito a trasporre su pellicola queste trasformazioni e frizioni, mostrando e facendo evaporare, con la commedia, la morbosità che avrebbe fatto la fortuna di scrittori come Moravia, pronti a porre filtri psicanalitici nel racconto delle relazioni umane e sessuali.
Nello stile di Lattuada, invece, si ha una percezione fortissima di un sostrato di arguzia e perspicacia popolare che il regista non ha avuto problemi ad usare come carburante della sua scrittura cinematografica.
‘Venga a prendere il caffè da noi’ (1969) ci mostra lo sguardo del regista in rapporto alla fine turbolenta degli anni ‘60: cosa assai curiosa è che in quella Luino che fa da scenario al film, immerso in una Lombardia di confine con la Svizzera, sembra che le turbolenze politiche europee ed italiane del tempo non siano mai arrivate.
Il film, ispirato dal romanzo ‘La spartizione’ di Piero Chiara, trasposto in questo caso nei Roaring Sixties, è il racconto di una stagione degli amori nel contesto di una caccia all’eredità, commentata musicalmente da Fred Bongusto.
In questo angolo di Lago Maggiore dove l’aria è umida, come se i protagonisti avessero un’esplosione di ormoni e vagassero in calore, muore improvvisamente Mansueto Paronzini.
Questo ricco appassionato di biologia lascia al mondo i suoi esperimenti vegetali e tre figlie, tutte pudiche quanto grottesche. Fortunata (Angela Goodwin), Tarsilla (Francesca Romana Coluzzi) e Camilla (Milena Vukotic) attirano l’attenzione di Emerenziano Paronzini (Ugo Tognazzi), impiegato del Ministero delle Finanze dall’approccio militare alla vita e al piacere.
Questo reduce del fronte greco-albanese è uno scapolo calcolatore dalla testa ai piedi, con la stessa lucidità di testa per il lavoro e il sesso. Ormai sulla cinquantina, capisce che è ora di sistemarsi e di perseguire le tre C elencate dal suo maestro spirituale, Paolo Mantegazza (1831-1910): Carezze, Caldo e Comodo.
Le Tettamanzi possono dargli un tetto lussuoso e gli agi che desidera ma non indifferente si rivela la libido delle sorelle, vergini scoppiate che palpitano per il nuovo uomo di casa.
Il rigore virile di Emerenziano fa inoltre terra bruciata ai tentativi di Paolino, infido corteggiatore e sverginatore di Tarsilla che tenta di convolarci a nozze, ritrovandosi con una donna liberata che vuole recuperare il tempo ed il sesso perduti senza pensieri o legami con un arrivista simile.
Emerenziano suggella il legame con le sorelle sposando Fortunata (sfondata durante la luna di miele) e creando un rapporto a quattro che non potrà diventare pentagono: la notte in cui tenta di soddisfare pure la cameriera di casa, Caterina, è stroncato da una trombosi che lo paralizza e lo fa rimanere sulla sedia a rotelle.
Alla fine, per eccesso di Carezze, non gli rimangono che Caldo e Comodo.
Questo gioiellino è uno dei titoli più riusciti di Lattuada per l’espressione e la sintesi ambientali, per la creazione dell’atmosfera del desiderio, i rimandi psicologici diffusi nel décor, come l’Orchidea Vaginalis di Mansueto Tettamanzi descritta da Camilla ad Emerenziano; il salame appeso che incornicia il volto di Tognazzi mentre il suo personaggio propone il matrimonio a Fortunata e forma un cappio, già rimando ironico alla fine che farà.
Che Lattuada sia attento e preciso nel trattare i movimenti della libido, la sua costrizione ed il suo rilascio, contorto o diretto che sia, non deve stupire: già con il suo La Mandragola del 1965 la seduzione era tattica, masturbazione che alimenta l’orgasmo ritardandolo.
Segno inequivocabile di questa capacità è la scena, in quel film di appena quattro anni prima, della distruzione della parete dei bagni termali che divideva i sessi, con un’alluvione di uomini nella vasca delle donne.
In ‘Venga a prendere il caffè da noi’ tutto è semmai manovrato per sottigliezza, per la finezza della profanazione o della proiezione del desiderio negli spazi, nei doppi sensi e nei rimandi: tant’è che Tarsilla arriva a diventare il vero contraltare femminile del personaggio Emerenziano, con un senso del calcolo e del piacere che è scoperto con l’esperienza, dopo la morte del padre.
L’ironia è che questa bibliotecaria, pronta a rispondere freddamente alla richiesta di lettrici superficiali sulla presenza dei testi di Sade in catalogo, sia la prima a leggere testi come l’Histoire d’O e fare sesso in un convento semidistrutto: un’immagine che al Divin Marchese sarebbe piaciuta, magari con più sangue e una volgarità densa, offensiva, che in Lattuada è goliardia e malizia.
Un film così, con questa perfida spensieratezza, non avrebbe posto al giorno d’oggi: la lontananza che si può percepire è un fatto di spirito dei tempi ma è sempre piacevole avere una boccata d’aria con film così gustosi che ci vengono dal passato.
Per i fan di Tognazzi, questa commedia è immancabile: è una caratterizzazione totale dell’edonismo, dell’ambivalenza e del decoro borghese con il massimo del controllo e dell’esattezza del tono che dimostra le sfumature e la forza disinvolta dell’attore.