I grandi film della Disney sono macchinari simbolici di vasta portata psicologica, la cui forza è pareggiata da pochissimi altri mondi di fantasia. ‘Disney‘ però, prima ancora di essere un mondo, è un filtro, uno sguardo che trasforma tutto ciò su cui si posa.
Giusto per fare un confronto, l’esperienza Ghibli (intesa come dimensione creata dalle visioni di Miyazaki e Takahata) è studiabile come un ‘universo’ in senso stretto, più circoscritto e definito all’interno di spazi, situazioni e dinamiche dovuti a volontà artistiche più specifiche, in un contesto produttivo in cui il controllo da parte degli autori-proprietari è più diretto e serrato; la Disney, invece, si fa notare per il suo eclettismo nella scelta delle storie, nella trasfigurazione di soggetti esterni le cui trame vengono fagocitate, i valori alterati secondo precetti e tendenze che Walt Disney (1901-1996) ha imposto nel mondo assorbendo nella sua squadra i più grandi artisti figurativi, gli illustratori più talentuosi del momento e sottoponendo le loro capacità al giogo della sua visione ideale, estetica e morale, non meno di quanto facesse già con le storie dei suoi lungometraggi (lasciando stare i soggetti relativi ai corti e ai personaggi creati direttamente dallo studio): in questo modo, ciò che la produzione perdeva in unicità stilistica veniva recuperato in vastità e flessibilità di risultato, duttilità di tono, capacità mimetica.
Un esempio importante e fulgido di questa tendenza alla trasfigurazione, molti anni dopo la morte del mitico creatore dello studio, è di certo il Tarzan uscito nel 1999, diretto da Kevin Lima e Chris Buck e ispirato al celeberrimo personaggio di Edgar Rice Burroughs (1875-1950).
La riscrittura disneyana del soggetto è così forte ed incisiva che il protagonista di Burroughs subisce l’ascendente di una delle storie più influenti nella cosmologia disneyana, di certo una di quelle che Walt Disney stesso vedeva come uno dei fondamenti della sua visione artistica: Il brutto anatroccolo di Andersen (1805-1875), cui lo studio dedicò, nel 1939, uno dei suoi segmenti più teneri delle Silly Symphonies.
Tarzan è il cigno incompreso di quel corto, Dumbo, Hercules che da goffo ragazzino di provincia greca (o meglio, americana) diventa un eroe con tratti da stella di Hollywood, così come Mulan, Cenerentola, il Jimbo de Il pianeta del tesoro: tutti protagonisti fuori posto che aspettano di fiorire e di splendere oltre ogni ostacolo ed incomprensione del loro ambiente, tutti immagini rifratte di uno stesso archetipo.
L’unica differenza rispetto all’anatroccolo che fa da origine a questo impianto narrativo è il fatto che Tarzan, ‘il brutto scimmiotto’, pur riconoscendosi come uomo dopo un necessario confronto coi suoi simili, non rifiuti il mondo che l’ha cresciuto ma riesca bensì a riunire pacificamente gli opposti.
Allo scoccare del nuovo secolo, questo eroe della giungla africana, doppiato in originale da Tony Goldwin e in italiano da Massimo Rossi, viene valorizzato per arrivare a giovani e adulti di fine Novecento con nuove ottiche che modificano in termini empatici e simbiotici i suoi rapporti con il mondo animale, con l’aggiunta di un particolare realismo filtrato dalle esigenze dell’animazione e che lo distanzia ulteriormente dalle alle sue precedenti riproposizioni cinematografiche: a conti fatti, questo Tarzan è un Burroughs riscritto a quattro mani da Hans Christian Andersen e Dian Fossey (1932-1985), la cui vita dedicata allo studio e alla protezione dei gorilla del Ruanda, conclusasi con il suo assassinio per mano dei bracconieri, non può non aver influenzato gli sceneggiatori in fase di scrittura.
A prova di questo punto di riferimento, che rende il film della Disney, tra le altre cose, una fiaba anti-bracconaggio, sta la caratterizzazione dei Porter, studiosi vittoriani innamorati della Natura e contrapposti al secondo cattivo del film, il violento Clayton.
Pur provenendo dall’Inghilterra di fine Ottocento ed essendo convinti darwinisti, Archimedes (or.: Nigel Hawthorne; ita.: Ettore Conti) e sua figlia Jane (or.: Minnie Driver; ita.: Francesca Fiorentini) non hanno nulla della spocchia o del disprezzo dei loro contemporanei nei confronti del mondo primitivo o naturale.
Vedendo Tarzan, la loro reazione è di spiazzamento e di meraviglia, non di superiorità o di ribrezzo: lo si nota da come gli sceneggiatori decidono di mostrare la curiosità ed il turbamento di Jane ed il felice stupore del padre che esclama ‘Si muove come una scimmia ma sembra un uomo. Potrebbe essere l’anello mancante!’.
Il successo della caratterizzazione non si ferma qui: lo si nota ad esempio nei dettagli espressivi dei gorilla, reinterpretati, come il paesaggio da sogno di questa Africa luminosa e lussureggiante, sulla base dei disegni fatti dal vero durante il viaggio di studio in Uganda fatto dalla produzione per le referenze del film.
Lo si nota nei gesti di Kala (or.: Glenn Close; ita: Sonia Scotti) che tiene Tarzan nella sua mano per quanto è piccolo e prova sulle prime a tenerlo sulla schiena, scoprendo subito dopo che il piccolo non ha l’istinto di aggrapparsi come i piccoli della tribù; nei suoi sorrisi placidi o nel modo in cui lei, più avanti nel film, è scossa dalla paura di vedere gli umani vicino la tribù per il divieto di Kerchak e per la prospettiva che Tarzan, scoperte le sue origini, possa lasciarla.
Lo si nota pure nel leimotiv dell’imprinting affettivo che non è visivo ma tattile e attiva le connessioni del cuore attraverso le mani, come in un contatto elettrico.
E che dire allora della mimica perfetta dei personaggi, soprattutto quella del protagonista, animato a Parigi da Glen Keane a capo di uno studio d’animatori esperti in anatomia accademica, dell’animazione di Jane realizzata a Los Angeles da Ken Duncan o dell’architettura simbolica che sorregge la struttura in tre atti del film (che a Hollywood è la regola)?
Tutta la prima parte s’incentra sulla corrispondenza tra le due madri di Tarzan. Davanti a noi si svolge un vero e proprio ‘download’ simbolico che, in un primo momento, sfrutta il montaggio parallelo per mostrare a confronto le due famiglie nella giungla, con l’introduzione nel mezzo del leopardo Sabor che, a conti fatti, risulta essere più un’entità che una creatura definita: non per niente, non appena il felino assassino viene ucciso da Tarzan a conclusione del secondo atto, questi si ‘reincarna’ in Clayton (or.: Brian Blessed; ita.: Stefano DeSando), sua forma umana che lo richiama cromaticamente e simbolicamente.
Dopo l’uccisione del figlio di Kala da parte del leopardo, il suo istinto materno si risveglia con la voce di Tarzan percepita in lontananza. Arrivata alla casa diroccata, dove è già avvenuta l’uccisione dei veri genitori del piccolo, scatta la scintilla. Caso vuole però che Sabor sia lì e svolga lo stesso ruolo delle fiamme che all’inizio hanno divorato la nave da cui i tre umani erano riusciti a fuggire.
Proprio come la madre naturale qualche minuto prima, Kala riesce poi a lasciare la casa sfruttando la stessa barca che era stata usata per sfuggire al naufragio e riutilizzata in seguito dal padre di Tarzan nel cantiere della casa sull’albero, come sorta di ascensore. La corrispondenza tra le due fughe conclude il processo, sugella il rapporto 1:1 tra le due madri e ha una degna conclusione in un atipico idillio notturno, in cui una madre ed un bambino dimenticano la solitudine e ritrovano qualcuno da amare.
Questa sequenza, accarezzata da una versione incantevole di You’ll be in my heart di Phil Collins, terzo vero regista del film, rimanda volutamente a Dumbo (1941) e alla canzone Baby Mine, cantata da Betty Noyes in inglese e in italiano da Miriam Ferretti: in entrambi i film, con queste rispettive canzoni, troviamo delle scene praticamente identiche, che consistono in sequenze di madri che cullano i propri piccoli sul ritmo delle ninnenanne extradiegetiche.
Alla bellezza di questa scena che chiude il primo atto segue quella del racconto della formazione di Tarzan (doppiato bambino da Alex D. Linz in inglese e Alessio Ward in italiano), deriso dai compagni e che desidera farsi valere in una prova di forza, non lontana da quella del rovinoso lancio del disco in Hercules o del colloquio con la mezzana in Mulan, tutte concepite per mostrare i protagonisti con le loro peculiarità in un momento di costrizione, fuori dal loro elemento.
Proprio come gli eroi di questi altri film appena nominati, Tarzan non mancherà di dimostrare il proprio valore e le sue prove sono riassunte ed esaltate da Son of man, di cui Collins arriverà a comporre due versioni con basi diverse, regalando un piacere acustico elettrizzante che si fonde con quello visivo e ribadisce il fatto che Tarzan sia, oltre che uno splendore figurativo, una gioia musicale.
Infine, abbiamo il terzo atto in cui, dopo l’uccisione di Sabor, devono essere sconfitti i ‘demoni’ antropomorfi e Tarzan arriva all’esperienza decisiva, quella del mondo umano. Qui si moltiplicano le scene d’azione e viene spinto al massimo il ritmo con un’animazione scattante e l’uso centellinato del rilievo dato dal computer agli sfondi.
L’inseguimento di Jane da parte dei babbuini, il suo salvataggio, l’imprinting tra lei e Tarzan, il passaggio dalla pioggia al sole alla fine del loro primo dialogo, l’incontro burrascoso tra i gorilla e Jane sotto gli occhi sdegnati di Kerchak e Kala, la sequenza di Strangers like me in cui il cuore di Tarzan batte per Jane e per il mondo che gli si dispiega davanti con le diapositive, lo stacco linguistico tra umani e primati nelle loro interazioni, la riscossa di Tarzan dopo la sua cattura, la morte di Clayton (non ucciso dal protagonista ma ‘punito dalla Provvidenza’, come in fondo accade ai cattivi Disney fin dalla regina Grimilde di Biancaneve): è tutto una successione di sequenze di forza icastica e ritmica folgorante.
La Disney può di certo vantarsi d’aver chiuso la sua esperienza nel secolo breve con un film luminoso, pieno di calore, musicalissimo, solido e senza paura di mostrare la sua struttura in piena luce, con una fierezza ed un’eleganza dovute alla coscienza della sua tradizione, della sua forza mediatica e narrativa, dei talenti dei suoi collaboratori.