Parlare del ‘Re Granchio‘ (2021) di Alessio Rigo de Righi e Matteo Zoppis è difficile: questo perché il film ha una forza cristallina, serena, manifesta e composita; al contempo, presenta un fascino ipnotico, strisciante e penetrante insieme. Noi percepiamo le sue qualità sia di colpo, alla prima visione, che poco a poco, ripensando all’aura delle sue immagini, ai dettagli preziosi disseminati lungo la sua struttura, alla malìa della sua storia ellittica, aspra e avvolgente.
La sua trama di divide in due atti: uno nella provincia viterbese, nei pressi di Vegliano, l’altro nella Terra del Fuoco, di fronte alle coste argentine. I due paesaggi sono opposti in tutto e questa differenza è valorizzata dalla fotografia che rende visibile i loro valori spirituali e psicologici, essenziali per il racconto.
La campagna laziale della prima metà è la terra dei vivi e allo stesso tempo un ‘Eden‘, per certi versi: per il protagonista Luciano (Gabriele Silli, grandioso) è il luogo in cui, se non pienamente realizzabile, è quantomeno possibile l’idea della comprensione umana e dell’amore; un luogo in cui vivere e in cui provare a vivere dei momenti felici all’infuori del giudizio della società, che l’accompagna sempre.
Colto e bello in gioventù, figlio del dottore del paese, Luciano è stato trascinato nell’alcolismo dalla profonda malinconia che lo attanaglia e lo inselvatichisce. Ogni giorno va per le campagne, bruciando il suo volto incorniciato dalla barba, che ricorda dei rovi di spine, camminando sotto il sole. Ha occhi adamantini che vanno dal triste al furioso in un lampo e gli unici ‘amici’ che trova in paese sono i pastori locali, abitanti delle cave di tufo nei dintorni.
Con Emma (Maria Alexandra Lungu, perfetta) la figlia di uno di questi, Luciano ha un’amicizia che sfocia in un amore tenero e ondivago, fatto di slanci e incomprensioni. Inimicatosi il principe locale e attirata la rabbia del padre di Emma, Severino (Severino Sperandio), che non vuole un tale sbandato per parente, Luciano reagisce con violenza e fa scattare la tragedia.
Il suo esilio lo porta nel Nuovo Mondo, in cui si reinventa cercatore di tesori in un’isola di fronte alla Terra del Fuoco, luogo inospitale che ricorda più gli Inferi che un paesaggio reale di questa terra. Dapprima reietto della comunità, adesso Luciano pare scacciato dal consorzio umano: quello dell’Isola è un’aldilà in senso stretto e lato, non solo una terra d’Oltreoceano, ed è qui che lui cerca la redenzione attraverso il mito del tesoro dei nativi locali.
Cambiata l’ambientazione, cambia anche lo stile del film. Perfino la luce del sole pare spegnersi gradualmente, riprendendo vigore solo nel finale, al culmine della circolarità della pellicola.
Iniziamo il film nella campagna italiana, dove tutto è illuminato in una bellissima tarda primavera, in giorni che fanno pensare a maggio: la camera è perlopiù fissa e l’assenza di movimenti lunghi o complessi quasi sospende il tempo. Il paesaggio è tortuoso ma irradia e vibra una luce unica che è quella dei ricordi più belli. C’è qualcosa, in questa diretta e toccante bellezza, che ricorda i versi di Dino Campana, non solo per certe dinamiche della vita di Luciano.
La ‘caduta’ del protagonista porta lui e noi spettatori in un mondo diametricalmente diverso: la Terra del Fuoco è sempre avvolta da nuvole; l’oceano ruggisce e non è placido come il lago presso cui lui ed Emma andavano a passeggiare; gli spazi si dilatano esponenzialmente ed espongono più direttamente agli sguardi nemici, fornendo pochissimi nascondigli.
I registi diversificano questa seconda parte anche col montaggio, dando una varietà di piani e campi maggiore, coll’intento di farci capire la tensione che è salita inesorabilmente. Inoltre, scelgono dei campi lunghissimi d’impatto per conferire potenza a vallate e montagne sotto cieli cupi e minacciosi, riducendo la figura umana come fosse quella di un insetto.
È il mondo delle tempeste di Turner, come nel dipinto dedicato all’impresa di Annibale del 1812, ma nel fondo dell’emisfero australe: una parte di globo che il pubblico italiano ha conosciuto al cinema con la Nuova Zelanda di Jane Campion.
La forza estetica di Re Granchio, però, fa sì che l’elemento geografico, in entrambe le parti del film, venga fagocitato dalle sue possibilità liriche, attraverso la ricchezza cromatica della pellicola usata e della fotografia di Simone D’Arcangelo.
Il risultato, inoltre, è talmente integrato con la psiche di Luciano che gli scenari sembrano diventare paesaggi interiori, valorizzando in tal modo la scoperta della vera natura del tesoro tanto decantato: tutto diventa specchio dell’interiorità di questo esule nato sotto una stella infelice.
Questo è vero specialmente nel finale: superata la vetta più alta dell’isola, Luciano è graziato dalla vista di un lago cristallino, sul cui fondo potrà (ri)trovare la vera ricchezza che cercava. Ed ecco che noi scopriamo assieme a lui che cosa mai contasse davvero per un uomo che non dava alcun valore al denaro.