L’isolamento dei manicomi pre-Basaglia porta alla mente immagini orrende di segregazioni o sevizie e se qualcuno ricorda la vita ingiusta e sfortunata di Dino Campana (1885-1932), allora avrà presente pure come l’incomprensione e la mancanza di accettazione sociale potessero diventare, a quel tempo, degli ottimi pretesti per disfarsi di individui ‘indesiderati’.
Posti in manicomio, gli internati entravano in un ‘luogo-non luogo’ che dipendeva dalle leggi della comunità e al contempo ne era completamente distaccato per via dei suoi abitanti, della vita che vi era condotta, per il fatto che l’inutile, lo sbandato, l’improduttivo, lo sragionato creassero nel loro vivere insieme un ‘negativo fotografico’ del mondo di fuori.
Universo a sé, il manicomio ha certamente svolto la funzione di tappeto sotto cui raccogliere lo ‘sporco’ e il ‘rifiuto’ del mondo autoproclamatosi ‘razionale’, alla maniera di una Narrenschiff; ma altrettanto vero è che questo luogo di abduzione sociale fosse anche lo spazio in cui medici appassionati potevano approfondire nuovi approcci e vicinanze umane coi pazienti; tentare quantomeno di auscultare la loro interiorità, armati di studi e conoscenze che, nei loro casi, non atrofizzavano il senso pratico e l’intuizione, lo studio di segni e caratteri.
Con la sensibilità acutissima che gli derivava dal suo talento d’osservatore e narratore, Mario Tobino (1910-1991), medico di manicomio per una vita, aveva ben chiara la percezione di quel luogo come la sede più giusta per un lavoro di isolamento, nel senso di quello necessario per lo scandaglio delle anime, l’introspezione, la contemplazione.
‘Per le antiche scale’ (1972, Premio Campiello) è un frutto tardo, celebre e bellissimo della sua produzione, ambientato nel manicomio di Lucca che Tobino conobbe personalmente, tanto da sceglierlo come ambientazione di racconti in cui rifluiscono voci, esperienze e storie sentite o vissute.
Tutto è reinterpretato attraverso l’ispirazione dell’autore che è calma, asciutta, luminosa ed estatica. Il suo alter-ego e nostra interfaccia con il mondo della follia è il dottor Anselmo: questo personaggio, non uomo di Chiesa né individuo con particolare senso della religione, ha una tale pietas e volontà di capire, trovare un punto di contato coi pazienti, che tocca e par vivere, in armonia con l’atmosfera del libro, picchi di autentica, costante e pura atmosfera spirituale. Atmosfera, questa, che fa pensare al Beato Angelico e alla pace d’indicibile bellezza delle sue Annunciazioni: per questo il manicomio lucchese del libro sembra descritto dalla penna di un frate devoto ritrovatosi a vivere e descrivere il XX secolo anziché il XV.
Tobino ha come obiettivo quello di rendere al lettore questi sentimenti alti e quieti e adopera per questo fine un registro lirico. Centrale, ad esempio, è l’ellissi, in senso strutturale e sintattico: da un lato, sostiene i passaggi tra i racconti che si susseguono tra loro con salti delicati, sfumati ma incisivi, nel tempo e nel tono (per via dei diversi mali raccontati), non con la continuità fluida del romanzo; dall’altro, specie se usata per rimuovere verbi, serve a stagliare con musicalità e senso icastico le caratteristiche di certi personaggi (es: “È stato per il timore della sua forza, per la sproporzione con gli altri: lui un gigante. Ma non può aver fatto nulla. L’uomo più buono, più semplice (…)”).
Altrettanto forte è il senso ritmico, costruito con frasi brevi, quasi che le proposizioni siano degli scatti sonori, dei movimenti di note e immagini in uno spazio senza gravità, atti a rimarcare gli imprintings affettivi e visivi; le immagini nella mente di Anselmo sempre allerta nei confronti della pazzia che “all’improvviso può battere le ali di pipistrello”; i dialoghi serrati in cui i pazienti cercano di liberarsi e Anselmo vuole un po’ di ristoro, un po’ di purezza, salvo poi essere penetrato dai salti intuitivi e logici, dalle immagini disturbanti che abitano le menti dei ricoverati.
Si è parlato fin qui di linguaggio dal lato progettuale del testo ma il linguaggio è anche un problema enorme nella stessa vita dei personaggi. Per essere più precisi, anche più che di linguaggio, è di ‘dimensione’, di ‘frequenza’ che bisognerebbe parlare.
La follia ha i propri codici, mondi, abissi e vette che costringono l’anima e la capacità dell’individuo in maglie strettissime e Tobino scrive con sicurezza che è l’intelletto la chiave di volta della follia, “era lui che si viziava, insaniva, lui la serpe. I sentimenti erano puri, intoccabili”. Arriva pure a teorizzare che la malinconia non valga in sé e non sia altro che l’effetto di una mente forte e tirannica che tormenta il malato con le sue visioni, perfino con sadismo.
Ma è proprio attraverso la follia stessa che Tobino trova gli spiragli per la fioritura dell’individuo: afflitto dalla malattia, il matto non si sviluppa né interagisce con l’esterno in maniera omogenea, con possesso più o meno uniforme delle proprie capacità logiche ed espressive; piuttosto, è teso tra gli estremi del vuoto e del climax, raggelato al proprio interno.
Anselmo tenta di capire i malati proprio in quei picchi d’intensità che sono, del resto, i momenti in cui in parte pare strapparsi il velo della malattia, in parte sembra che questa sia più forte che mai, visto che non c’è dialogo con l’Altro o gli spazi circostanti.
Pensando a questi istanti rivelatori, il pensiero va al Meschi sassofonista; la pianista superba chiusa nel rifiuto di ogni comunicazione; il marinaio Bongi che parla, sempre sospeso nel passato, come fosse ancora sopra le navi sulle quali è cresciuto, in mare aperto. Attorno a loro, affetti materni fioriscono tra la Sercambi, armoniosa allucinata, e la deforme, animalesca Ernestina; tra il tenero Cherubino e la dolce infermiera Celoni; altri folli ancora vengono visitati dal Diavolo, subiscono il fascino del vino che li ammalia con una soavità terribile da leggere, sognano il Cristo sotto le mani di perversi bambini; e infine, c’è pure un federale ‘pirandelliano’ che durante il fascismo dubita dell’esistenza del Duce e dell’universo mondo.
Non meno particolare dei pazienti è il primo personaggio protagonista, il dottor Bonaccorsi: re senza corona del manicomio nei primi del secolo XX, amante delle mogli dei suoi colleghi, egli nutre legami inquietanti e sotterranei con la follia, per la paura che questa serpeggi in lui e i suoi fratelli, dopo aver trionfato su una sorella che lui ha scelto di non vedere mai.
Al contempo metafisico e sanguigno, ironico e grave, il Bonaccorsi ha ‘quella staticità un po’ astratta che hanno i gaudenti’ (Maria Bellonci): un tratto che gli permette di sviluppare un fascino ed un’aura cui nessuno sa resistere e che lui, lasciato il manicomio, trasformerà in corazza per chiudere le porte in faccia al mondo intero.
La galleria dei personaggi, ricca di figure memorabili, è stata paragonata da Tullio Kezich ad ‘una mostra di disegni di un pittore che ha già provato il suo valore in opere di maggior ampiezza e respiro’: questo giudizio non tiene conto che proprio il loro essere ‘disegni’ crea semmai una prospettiva ampia e luminosa tale da spiazzare e farli competere con opere più grandi, sia per l’insieme formato dalla successione delle storie, sia per i loro vuoti, i ‘bianchi’ che valorizzano gli ‘sfumati’ e i ‘tocchi di matita’. Qualcuno potrebbe anche paragonare i racconti a frammenti di mosaico o affresco volutamente concepiti distanti l’uno dall’altro, quasi a formare un complesso puzzle che esiga un salto intuitivo dal fruitore, e non sbaglierebbe: già belli da soli, tutti i pezzi in realtà partecipano alla natura lirica dell’insieme, ma siamo noi a colmare le distanze tra loro accorgendoci della volontà dell’autore.
Definendo inoltre Tobino ‘secco, fulmineo, espressionista’, Kezich ha forse tenuto d’occhio troppo il contenuto del libro, non accorgendosi che questa violenza estetica percepita sia più delle cose descritte che non della mano che le indica e le mostra: tutti gli stimoli e gli impatti delle storie sembrano piuttosto assorbiti e pacificati nel momento stesso in cui sono esposti, per via del tono usato, per la struttura morbida e vasta, chiara senza essere imponente, che sottende il progetto.
Inoltre, l’importanza del sottinteso, del vuoto, dello spazio libero nel libro stesso richiamano, a livello strutturale, il lato incomunicabile, sordo e refrattario alla comprensione della follia stessa. Questo effetto, Tobino lo sapeva, stimola le domande e il fascino delle sue storie, mostrandocene al contempo la profonda simbiosi col tema trattato: ci mette di fronte a frequenze che noi non riusciamo a carpire, fomenta la nostra intuizione di fronte ad una questione che non può essere risolta e che, purtroppo, viene adesso occultata senza troppi criteri o problemi con sostanze che lui avversava, quasi fossero camicie di forza che vanno giù con un bicchiere d’acqua.