L’ultimo film di Sorrentino, per il risultato ottenuto e non previsto di una profonda, intima bruttezza, è un film dell’orrore, cosa che nessuno sembra notare: sarà forse per l’ipnosi dell’improvvisa passione che il grande pubblico ha sviluppato per Napoli o della fama del regista, fatto sta che tutti sembrano concordare sulla riuscita del film, non pensando a ciò che di vuoto ed informe si mostra nella struttura e nel contenuto della pellicola.
Anche per via dell’intrigo amoroso nella parte iniziale dell’intreccio, basato su una passione incestuosa, Parthenope risulta essere il The Dreamers di Sorrentino, nel senso che rappresenta la proiezione della fantasia di un regista anziano su di una giovinezza idealizzata, con risultati che vanno a sfavore del film stesso.
Durante la visione si è vittima di due costanti attacchi che il regista programma su due piani: quello della fotografia e quello della sceneggiatura. ‘Something rather facile‘ scrive Peter Bradshaw (The Guardian) sui risultati del lato estetico del film, in cui la camera semplifica i movimenti e valorizza il panorama di Napoli con l’attitudine di uno spot turistico o d’una pubblicità ‘for some impossibly expensive cologne‘.
La Napoli del film è quella bella, linda, baciata dal sole del centro: è in questo scenario d’idillio che Parthenope (Celeste Della Porta) vive così tanto in vacanza che questa pare la sua vera occupazione, mentre le incursioni in università sembrano essere le vere vacanze.
Sorrentino la immerge in un contesto altoborghese, nel mondo elegantissimo delle ville a mare di Posillipo, in cui tutto sembra giocare a favore della protagonista: dalla carrozza che il suo padrino regala ai genitori prima che lei nasca e che diventerà il suo letto, fino ai favori del professore di antropologia (Silvio Orlando) e dell’arcivescovo Tesorone (Peppe Lanzetta).
Il peccato è che lei, per proteggere una leggerezza emotiva sconcertante, cerchi sempre la risposta ad effetto per colpire l’interlocutore e apparire più profonda, imitata da tutti gli altri personaggi. Il film ha immagini luminose e costantemente tirate a lucido, senza intensità: così è Parthenope, sempre in tiro ma senza vero, profondo e pervasivo carisma, a dispetto di ciò che lei dice, le si dice e di cui sono convinti tutti quanti attorno a lei. Non era necessario che fosse la Medusa di Sartorio ma la Della Porta aggrava questa mancanza di aura perché quanto più cerca di essere seducente o magnetica, più riesce solo a rendere stupido il personaggio.
Non ha certo alcun aiuto dalla sceneggiatura, visto che tutti sembrano gareggiare per la battuta più sentenziosa e arguta: il ‘salto’ non avviene proprio perché lo si cerca troppo, per principio. E il legame con The Dreamers si ribadisce proprio in questo spreco di energie che toglie forza al lato emotivo della storia: il Morandini aveva scritto bene che a Bertolucci era mancato d’approfondire il lato tragico della storia d’amore tra i due fratelli Theo (Louis Garrel) ed Isabelle (Eva Green); lo stesso accade a Sorrentino con Parthenope quando si tratta di descrivere le conseguenze del suicidio di Raimondo (Daniele Rienzo), fratello della protagonista: la svalutazione di questo snodo centrale ed imprescindibile per la trama porta ad un deprezzamento dell’intero film, che sembra quindi reggersi su un elemento morboso e gratuito, posto lì per aggiungere una supposta complessità.
Il fulcro emotivo della perdita e dell’enorme potere che sulla carta Parthenope dovrebbe avere, con tutto il carico di tragedia e di opportunità che esso comporterebbe, si disperde con le sequenze centrifughe dedicate al Cinema (incontro con Flora Malva e Greta Cool) e al tesoro di San Gennaro; né si potenzia con la conoscenza dello scrittore John Cheever (Gary Oldman) o del mafioso Roberto (Marlon Joubert), con la gita ‘turistica’ in sua compagnia per i bassi o la scoperta del figlio del professore. Nessuno di questi episodi fa effettivamente parte di un climax strutturale e psicologico.
Il problema è che Sorrentino non è mai con Parthenope, ‘con i piedi per terra‘: non sfoltisce il film dei rami inutili e resta troppo legato a dei preconcetti sulla sua figura; non capisce che la storia era in realtà molto più diretta, carnale, cupa e sanguigna di quanto pensasse.
Si dice nel film che ‘l’Antropologia è Vedere‘: l’ironia è che il regista non ha visto la storia, da lui stesso scritta e diretta, per quel che era. Non ha lasciato ‘respirare’ la protagonista, ha solo proiettato su di lei delle astrazioni, a volte lubriche, senza che ce ne fosse un bisogno narrativo.
Certo non vanno a suo favore certe dichiarazioni rilasciate a Federico Pontiggia il 22 giugno 2024, ripetute in seguito durante la promozione del film: ‘La realtà è che i film sono quasi sempre autobiografici, almeno per me (…) l’autobiografia non è solamente quello che si è vissuto, è anche quello che un essere umano avrebbe voluto vivere, quel che uno ha desiderato è a volte più potente di quello che è stato vissuto (…). Parthenope è l’autobiografia ideale della mia vita, cioè essere una meravigliosa donna in grado di passare di esperienza in esperienza e invece sono stato un brutto anatroccolo che non faceva nessuna esperienza: ecco perché ho fatto Parthenope.’