Sembra strano che siano passati più di vent’anni dall’uscita di Moulin Rouge! (2001) di Baz Luhrmann, film australiano che esplodeva d’amore per il cinema e per la musica.
Con uno scenario d’eccezione come la mitica sala da ballo parigina di Montmartre ricreata in studio, quel film eclettico e luminoso ruotava attorno ad uno spettacolo e ad una storia d’amore ispirata da feuilletons, romanzi popolari, vaudeville e Opéra fin de siècle.
Si è già parlato giustamente, in altri articoli, delle connessioni tra la fine dell’Ottocento nel film e la conclusione del secolo breve al momento delle riprese ma è importante sottolineare, alla luce della stessa struttura e del tono della pellicola, quanto Luhrmann abbia colto del XIX secolo.
Le sue scelte sul piano delle referenze estetiche dimostrano la sua risonanza profonda con la vera, unica esperienza estetica ottocentesca, quella dell’Eclettismo: l’unisono con il tempo ritratto è totale, visto che ai cambiamenti stilistici della scenografia corrisponde idealmente la successione musicale delle più belle canzoni anglofone del XX secolo, quasi che un deejay abbia pensato di dare al film la giusta spina dorsale in forma di medley continua.
Gli spazi variano dal Secondo Impero della sala da ballo, sfavillante di rosso e oro, passando per il gotico, a tratti caricaturale, della torre del duca, arrivando poi all’India fantasiosa e bollywoodiana dello ‘Spettacolo Spettacolare‘.
A fare da contrappunto, le musiche passano dal rock all’operistico, dal disco al musical, dal tango alle danze indiane, regalando sequenze come quella di ‘Your song‘ di Elton John cantata da Ewan McGregor col breve sottofondo di Alessandro Safina, il cui volto anima la luna piena, ricordando il Voyage(1902) di Méliès.
E che dire della Kidman, allora all’apice della sua arte e della sua bellezza, quando dona la voce e la linfa alla sua Satine che sogna di volare via o si abbatte per dover rimanere in gabbia e morire come una Traviata che non potrà vivere la sua storia d’amore fino in fondo o vedere il Novecento che nasce?
Si è tentato, al tempo dell’uscita del film, di accusare Luhrmann di non aver dato spessore ai personaggi. L’accusa non tiene conto dei riferimenti intertestuali e culturali del film che sono le drammaturgie popolari già citate sopra ed il melodramma: contesti in cui la psicologia è semplice, efficace perché netta e non ancora infettata dallo psicologismo.
Il film e i suoi personaggi sono riuscitissimi, a dire il vero: sono in fondo dei ‘caratteri’ che si sciolgono e giocano con sé stessi, in ossequio al proprio genere. Così come Christian è l’idealista ingenuo che non conosce la grande città e fa esperienza della gelosia e del dolore, così Satine (che ricorda sia la seta che Satana, a rimarcare la tentazione ed il richiamo dei sensi) si ritrova ad esporre il suo lato sensibile, il lato più innocente della sua personalità attraverso l’amore: in questo modo, il bianco diventa nero ed il nero (o meglio ‘il rosso’) diventa bianco, come nei grandi rivolgimenti del melodramma.
Il tutto avviene con la premessa di un contesto assai specifico come quello del mondo teatrale, che nel XIX secolo, così come molti secoli addietro, era considerato esecrabile, da marchiare con uno stigma da poter togliere, in questo caso, con l’approdo ad un teatro ‘nobile’, sogno di ogni impresario di un locale moralmente discutibile e con velleità artistiche.
Questo sospetto nei confronti del mondo performativo è in buona parte dissipato nei paesi più industrializzati ma si può trovare ancora nei contesti o tra le nazioni più legate alla tradizione. Un simile ambiente, ritratto con l’affetto e la comprensione di Luhrmann per lo spettacolo, fornisce al film una vena elegiaca che si fonde con quella romantica e l’occasione per una sequenza di canto con ‘The show must go on‘ dei Queen in un alternarsi di cori e voci splendide come quelle della Kidman e di Jim Broadbent nel ruolo di Harold Zidler.
Non meno importante da menzionare a questo punto è la frizione tra la realtà e gli ideali della bohème cantati dall’effervescente banda del giullare e fool shakespeariano del film Toulouse Lautrec (un mitico John Leguizamo): è una delle concause del viraggio, costante dei film di Luhrmann, dalla commedia al dramma dolente all’interno di un film tagliatissimo (nel senso del ritmo di montaggio, non di censura subita) e di uno sfacciato e felicissimo teatro nel teatro.
Per illuminare questa Parigi di fantasia, aperta su suoni e mondi iconografici dei più diversi come una grande scatola cinese, attraversata dalle forsennate coreografie di John O’Donnell, il regista si affidò, cosa da sottolineare, a Donald McAlpine che lo aveva aiutato nel dare al suo Romeo + Giulietta (1996) il calore bianco delle estati californiane.
Il suo contributo rende perfettamente il senso della visione di Luhrmann che cerca, un po’ come Sternberg, un cinema di pura invenzione e meraviglia in cui ogni emozione ed ogni gesto possono ispirare una canzone.
Moulin Rouge!, sogno lisergico tenero e crudele di inizio duemila, mostra come il cinema possa essere ancora fatto nel modo delle origini, con tutta l’ingenuità intensa ed il passo leggero, perfino nella tragedia, che hanno accompagnato le storie dei cineasti dei primordi. Con un’energia simile davanti a noi si può sognare eccome, ubriacati dalle immagini, che le colline siano vive con il suono della musica.