Un amante della pittura potrebbe vedere Lancelot du Lac (1974) di Robert Bresson (1901-1999) e pensare, per l’ambientazione e i fotogrammi di questo film, a Piero della Francesca. In questo modo creerebbe un nesso tra i due artisti, l’uno dedito al cinema e l’altro all’arte statica, basato sulla loro profondissima sensibilità religiosa e spirituale, su uno stesso interesse e sforzo per raggiungere uno stadio trasfigurato della realtà.
Nondimeno, queste personalità così apparentemente affini sono separate dai secoli e da due diverse visioni del Cristianesimo in rapporto con la Storia, tali da rappresentare il baratro che allontana l’europeo contemporaneo da quello del Quattrocento.
La fede di Piero porta la sua arte a rappresentare il trionfo della Rivelazione e del Messaggio di Cristo su tutti i fronti; riesce a fargli concepire un mondo cambiato inesorabilmente dall’arrivo del Messia e della sua luce, che spiegano e chiariscono i personaggi raffigurati a sé stessi e agli altri, depurandoli d’ogni emozione e privandoli d’ogni turbamento.
La calma dei suoi spazi è quella generata dalla lotta cessata e risolta tra vecchio e nuovo mondo, come se si volesse far vedere agli uomini alcuni frammenti dell’Età dello Spirito descritta da Gioacchino da Fiore. I suoi volti, che a prima vista possono sembrare a qualcuno severi o malinconici, sono piuttosto imperturbabili, perché i personaggi stessi vivono all’interno d’una dimensione in cui non v’è che la pace data dall’arrivo del Regno dei Cieli.
Inoltre, per un meccanismo retroattivo, questa condizione investe in Piero la Storia intera, perché tutta la Storia non è che un cammino che giustifica e conduce allo Stadio Ultimo, al matrimonio tra Cielo e Terra, alla fagocitazione dentro la pienezza esistenziale, teologica e metafisica dell’Essere Supremo che abita nell’Empireo.
A Bresson, maestro della calma e dell’angoscia, regista della semplicità e del rigore, non è data questa sicurezza. È un uomo del Novecento che sente attorno a sé la presenza e il problema del Male, si riconosce nelle domande che Bernanos e Dostoevskij si ponevano di fronte al mondo, soffre indicibilmente dei continui attentati che la Purezza, la Virtù, la Fede subiscono ogni giorno della vita terrena.
Questa sofferenza di fronte alle vicende umane e al silenzio della divinità lo portò a vedere nel Cinema il modo per riunire in un nodo estetico e formale due tendenze opposte nella sua psiche e nella sua visione del mondo: il dolore opprimente di fronte al Male, la corruzione, la distruzione e il bisogno di superare ciò che vedeva intorno a sé, il tentativo di manifestare la propria fede con le opere stesse; e questo con un controllo del linguaggio visivo e della mimica attoriale teso a far evaporare ed innalzare, come l’incenso bruciato, la parossistica violenza emotiva che stava dietro la sua arte.
Adattando la storia di Lancillotto nel suo film bello, ipnotico e luminoso del 1974, Bresson coniuga due opposti anche in un altro senso: da un lato smonta il mito e l’estetica cavalleresca mostrando il sangue, l’emotività e la violenza di un Medioevo romanticizzato dalla maggior parte del pubblico; dall’altro mette in immagini, con una povertà ascetica dei mezzi, quello stesso Medioevo con un’energia rara, da imprinting, facendo sentire allo spettatore la frizione tra vita di spada ed ideale all’interno dei protagonisti.
Lancillotto è interpretato dal pittore e scultore Luc Simon (1924-2011) che, come sempre accade in Bresson, non aveva esperienza attoriale prima di questo film. Il cavaliere è reduce dalla disastrosa campagna di ricerca del Graal che, lungi dal renderli migliori, li ha gettati nella perdizione.
Il film inizia con una serie di immagini sanguinose, tra teste tagliate, corpi menomati, suoni di metalli in collisione, chiese profanate, corpi bruciati; il tutto mostrato a camera fissa o con pochi movimenti della camera sul proprio asse per mostrare i cavalieri a galoppo nella foresta.
Dei testi in rosso, passanti sullo schermo dal basso verso l’alto, ci informano che il Graal non è stato raggiunto; Merlino, morto prima dei fatti del film, è citato in quanto istigatore della missione; Perceval, il più puro dei cavalieri della Tavola Rotonda, è scomparso per sempre; gli altri compagni di Re Artù (Vladimir Antolek-Oresek) hanno perso la via, sia letteralmente che figuratamente.
Lancillotto, il più fedele e valoroso, torna a Camelot, scosso dal fatto di aver visto il Graal e d’aver sentito, prima di poterlo prendere, una voce che gli rinfacciava i suoi peccati, tra cui il suo amore, corrisposto, per Ginevra (Laura Duke Condominas).
La regina non vuole rinunciare a Lancillotto, che chiede di interrompere la loro relazione: lei dice che Dio non vuole che si rinneghi l’amore; lui risponde che era proprio di Dio la voce che lo vuole spingere a scegliere tra lei e il suo dovere.
Nel frattempo, attraverso Mordred (Patrick Bernhard), la slealtà e la morte s’infiltrano dentro Camelot: l’infido cavaliere vuole disfarsi di Lancillotto ed infangarlo di fronte al re e ai suoi compagni, esponendo l’amore tra lui e la regina.
Lancillotto nota le bramosie degli altri cavalieri verso Ginevra, giacché tutti guardano la sua finestra di notte; capisce infine di non poter rinunciare a lei e decide di partecipare ad un torneo dove dà dal filo da torcere a tutti i cavalieri della Tavola rimasti.
Ferito da una lancia, il cavaliere è curato da una contadina che scoraggiata lo lascia andare (‘Avanti, andate a farvi uccidere’, gli dice): il suo piano è di tornare a Camelot per prendere con sé Ginevra. Riesce a scappare con lei ed alcuni fidati ma nella lotta che segue la fuga uccide senza volerlo il suo caro amico Gauvain (Humbert Balsan), l’unico che l’avesse sempre difeso e che avesse cercato di risparmiare a Ginevra il giudizio e l’ira del re.
Alla fine, Lancillotto riconsegna Ginevra al marito per far cessare la guerra intestina tra i cavalieri: è l’ultimo gesto di lealtà dei due amanti verso Artù, prima che Mordred irrompa con un attacco a sorpresa. Il cavaliere va in aiuto del suo re ma egli stesso muore sul campo, cadendo come un pupo insanguinato sui suoi compagni, invocando Ginevra nel verde calmo ed imperturbabile della foresta francese.
Per raccontare la violenza e gli sbandamenti interiori dei suoi cavalieri, Bresson si focalizza sui gesti delle mani, protagoniste della sua intera filmografia, depurati dai bisogni espressivi e teatraleggianti; sulla sabbia dell’accampamento, gli occhi e i volti dei cavalli, le pietre del castello, il silenzio del bosco, il metallo delle armature e delle armi in collisione; sull’espressione dei volti non deformati da moti interiori che pulsano, controllati, nella calma più totale.
In questo modo, per un’inversa proporzionalità che esprime a pieno il suo genio, la mancanza di ‘realismo’ e di orpelli scenografici, il suo ‘lento’ musicale nel montaggio e l’eleganza del ‘récit’ arrivano a creare il ‘doppio’, il ‘rimosso’ del film, zona d’ombra fatta del peso di tutte le domande che assillano i protagonisti, la prospettiva di tragedia che grava sulle loro vite, le loro passioni sotterranee che sono costrette nel ritmo della metrica visiva.
Questa doppiezza del film dimostra il potere artistico e la malìa di Bresson che dilatano per tutto il film, in un’atmosfera pacata e sospesa che nasconde un urlo spaventoso mischiato ad una preghiera, il dubbio di Lancillotto, la decisione che il protagonista deve prendere: come l’Ercole del mito greco, egli è sempre di fronte al bivio tra il dovere e il piacere, le due strade tra cui la Forza (interiore ed esteriore che sia) deve sempre scegliere.