Henri-Georges Clouzot (1907-1977) aprì l’ultima fase della sua carriera, allo scoccare degli anni Sessanta, con un film densissimo, lungo ed elegante, scritto a 12 mani e così amato dal pubblico anglosassone da essere nominato agli Oscar come miglior film straniero ed aggiudicarsi il Golden Globe in quella stessa categoria.
Per il suo La Vérité (1960), aiutato dalle luci di Armand Thirard, il regista pensò ad un film in bianco e nero in cui il bianco risalta a stento e il tutto sembra risolto in una scala di grigi contro un’oscurità densissima.
Questa è l’atmosfera perfetta per descrivere i tipi umani del suo cinema, per cui la penombra è uno stato esistenziale. È senza dubbio uno degli esiti più belli dell’esperienza Clouzot, summa di drammaturgia, luci (e in seguito cromie ed effetti lisergici, come testimoniato da La prigioniera (1968) e l’incompiuto L’enfer (1964)) che sono già dei narratori ulteriori all’interno delle pellicole.
In La Vérité ogni dettaglio è posto sotto una cappa che avvolge lo specchio in cui Dominique Marceau (Brigitte Bardot) vede riflessa una parte del suo volto all’inizio del film; il ragno che per noia il suo avvocato disegna sui fogli in aula; le tv che fanno vedere alla protagonista il suo Gilbert (Samir Frey) dirigere l’Uccello di fuoco, commento sonoro al riemergere della passione.
Tutti questi piccoli momenti che densificano la storia e i personaggi si ritrovano incastonati nell’apparente struttura di un film giudiziario: Dominique Marceau, ragazza di Rennes, bella, annoiata e sfrontata, ha ucciso il fidanzato della sorella Annie (Marie-José Nat) e nella disperazione del gesto, aveva tentato di uccidersi. Salvata, viene portata in tribunale per l’omicidio e la seduta si trasforma in un esame totale della sua vita.
Uno dei punti centrali del film, non per niente, è proprio la vivisezione di una giovane (e insieme delle nuove generazioni) da parte di uomini del mondo dei ‘padri’. Che lo sguardo di Clouzot appartenga ad una visione di certo più vicina, per un fatto anagrafico e culturale, a quello degli accusatori e dei giudici (non solo di professione), è cosa certa; altrettanto vero, questo va detto, è che lui non provi simpatia neanche per loro.
Della sua protagonista Clouzot rispetta l’indipendenza e la schiettezza ma non può non indispettirsi di fronte alle bassezze in cui questo potenziale è scialacquato. Ciò che lui coglie del ‘nuovo’ è una mancanza di senso, un girare a vuoto dell’energia: cosa che ai suoi occhi risulta fastidiosa almeno quanto la grettezza e la visione arida dei vecchi.
Il Morandini, scrivendo del film, si lamenta di alcuni punti della pellicola in cui Clouzot avrebbe ‘pirandelleggiato’ un po’ troppo: il fatto è in realtà sorpassabile, perché certi autocommenti dei personaggi su sé stessi, riscontrabili nei dialoghi che Dominique intrattiene con il suo amico Michel (Jean-Loup Reynold), sono piuttosto brevi e non urtano l’insieme.
Anzi, servono a vedere quanto siano ridicoli i tipi umani che avrebbero infoltito anni dopo le file dei sessantottini francesi: Michel è un ragazzo di buona famiglia, ha una spocchia da rive gauche di tutto rispetto, gioca a fare la bohéme e non può non strappare risate quando esige in tribunale, con esilarante giovanilismo, che Dominique sia giudicata da giovani, perché i vecchi giudici sarebbero incapaci di comprendere la situazione.
Che poi l’avvocato dell’accusa, interpretato dallo stesso attore del perfido marito di Les diaboliques, Paul Meurisse, butti addosso alla protagonista tutto il veleno ed il voyeurismo punitivo comune a tutti gli spettatori della seduta, è un altro discorso. Clouzot non gli riserva simpatia: se così fosse, non avrebbe concesso al personaggio della Bardot un momento splendido di metacinema che si fonde con la biografia dell’attrice.
All’arrivo di Dominique in tribunale, la vediamo entrare in figura intera; segue un campo lungo sugli spettatori che si alzano per guardarla con tutto il compiacimento possibile; alla fine, si mostra il busto della Bardot, col volto chiuso in un disprezzo ed una pena totali. Quando l’arte svela la vita…
In fondo, non si può sentire altro per via dei dialoghi che seguiranno: vengono rispolverati come accuse i suoi screzi con la sorella Annie che vengono raccontati fin dall’infanzia (‘J’avais huit ans’, dice lei non sapendo che dire); a seguire, c’è il ricordo della lettura, per sentirsi adulta, di Les Mandarins della Beauvoir in una Rennes di una tristezza mostruosa capace solo di dare noia; ma nulla arriva al racconto del periodo parigino che, lungi dal dare a Dominique uno scopo, si rivela l’ambiente giusto per disperdersi totalmente, facendo ritorcere la sua bellezza ed il suo potere erotico contro di lei.
Arrivata nella capitale, colpisce Gilbert che entra in scena e in casa mentre lei, nuda, ascolta a letto un disco; dimostra il suo amore per la musica del momento mostrando gambe bellissime, abbracciando tende, ballando e sfogandosi nei locali. Non sa concentrarsi su niente però, nemmeno sugli affetti: la noia fuma il suo houka e lei non ha una struttura né un obiettivo nella vita, non sa resistere a quei fumi.
È la storia di tantissimi europei del Secondo Dopoguerra: la troppa libertà fa anche più male delle troppe regole o delle troppe privazioni e si arriva a gente come Michel che dice, strafottente, ‘Je travaille dans la vie. Je pense’.
Nota importantissima del film è il rovesciamento del mito Bardot: Clouzot risponde a Vadim e al suo erotismo di vacanza estiva facendone uscire i risvolti oscuri, sfaldando l’icona e valorizzando l’attrice.
Per questo motivo, quella ragazza bellissima, che immaginava da bambina di essere circondata da animali come Biancaneve e detestava recitare, disposta a mostrarsi solo per poter un giorno avere una grande fattoria, arriva ad un climax splendido nel confronto finale con la sorella. Se Clouzot avesse odiato in toto quel personaggio, non gli avrebbe concesso un momento così intenso, né un percorso così memorabile.
La fine di Dominique non è meno cruda della sua vita: si suicida in carcere, tagliandosi le vene con lo stesso pezzo di specchio dell’inizio, poco dopo il ricordo dell’assassinio di Gilbert, che di lei si era stancato, nonostante le sue scuse ed il suo ritorno.
Per i due avvocati, la sua fine, che a noi sembra un omicidio collettivo, è solo ‘un fatto del mestiere’.