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In questi giorni, alcune dichiarazioni dello Studio Ghibli hanno diffuso la notizia che Hayao Miyazaki starebbe già pensando ad un prossimo film, confermando un’ennesima volta il segreto di Pulcinella che ha rincuorato e fatto gioire i suoi ammiratori: il regista de ‘La città incantata’ (2001) e del ‘Castello errante di Howl’ (2004) non ha alcuna intenzione di far cessare la sua attività, nonostante abbia detto, in alcuni comunicati degli anni passati che hanno fatto discutere il mondo intero, di volersi ritirare.
Queste affermazioni erano già state smentite clamorosamente anni or sono, con l’annuncio del suo ultimo film che in Italia uscirà a Capodanno 2024: dopo una lavorazione lunga e ad alta suspence per i ‘miyazakiani’ duri e puri, ‘Il ragazzo e l’airone’ è finalmente pronto per le sale, passando per promozione pure in Italia con ben due anteprime, una a Roma (alla Festa del Cinema, il 23 ottobre), una a Lucca (5 novembre, cinema Astra).
Dopo aver visto questo film nella Capitale, nondimeno, sorge una domanda: che cosa avrà mai intenzione di mostrare prossimamente al pubblico questo gigante del Cinema? Ciò viene spontaneo, soprattutto constatando che ‘Il ragazzo e l’airone’ è un film che tira le somme e ‘brucia’ di colpo, col sorriso e senza peso, tutta la filmografia precedente del regista.
Il romanzo citato all’interno del film, con il quale condivide il titolo, è ‘E voi come vivrete?’ (1937, or.: 君たちはどう生きるか; traslitt.: Kimi-tachi wa dō ikiru ka) di Genzaburo Yoshino: è un testo che il protagonista, Mahito, riceve dalla madre morta e nulla all’infuori di questa citazione, segno di apprezzamento, ci rimanda effettivamente al libro suddetto.
‘Il ragazzo e l’airone’, che porta un titolo italiano ricalcato su quello inglese, fuorviante e sciocco, è l’opera di un regista senza freni o catene. Il suo paesaggio e la sua storia sono dominati da una torre concepita, nel punto in cui uno strano meteorite aveva colpito la regione, da un prozio materno del protagonista Mahito.
Al suo interno giace nascosto l’accesso verso un Aldilà che mischia sogni di una Biblioteca Universale, il cui accesso porta versi danteschi (‘Fecemi la divina postestate’); palazzi regali ed eclettici come quelli della Prussia fantastica che potevamo vedere nel Castello errante; regni di animali parlanti all’incrocio tra Swift e Carroll fusi con il mondo della Principessa Mononoke; paesi di ombre ed anime pronte a nascere in cui, circondati dal mare, i pini e le tombe shinto giapponesi possono convivere con i cipressi della celebre Isola dei morti di Böcklin; ville e giardini all’europea che ci riportano a Porco Rosso e alla casetta di Zeniba della Città Incantata; corridoi con porte aperte su mondi diversissimi tra loro e circolarità temporali tra una dimensione e l’altra; pietre senzienti e aliene come quelle di Laputa, fiori di una bellezza radiosa come quelli di Nausicaa della valle del vento.
Tutto questo, peraltro, dominato da un savio stanco e minacciato dalle stesse creature che ha introdotto in questo mondo alternativo, con il peso di dover reggere l’ordine delle cose: innalzando il suo ‘Axis Mundi’ con dei blocchi geometrici di una pietra aliena, simili a quelli usati dai bambini di tutto il mondo, il vecchio prozio mantiene ogni giorno l’armonia del suo creato alternativo. Questo ricorda un passo del De subtilitate di Gerolamo Cardano in cui si racconta che suo padre Fazio, chiesta a due spiriti invocati in un rituale la natura dell’universo e della creazione, avrebbe ottenuto dal secondo questa risposta: Dio non aveva creato tutto in una volta ma crea in ogni istante e se si fosse mai fermato, tutto il mondo sarebbe perito senza scampo.
Posto in quest’ottica, il malinconico e stravagante ricercatore alla ricerca di un erede, che passa anni e anni all’interno della sua creazione, dio e abitante del suo mondo, pare uno di quei sapienti rinascimentali che, come Giulio Camillo (1480-1544), cercavano di ordinare la propria mente con l’immaginazione, attraverso la concezione di spazi in cui dilatare ed esprimere la propria interiorità, almeno quanto per conservare il loro vasto sapere.
Il prozio, iniziatore di Mahito, è a livello metafilmico e metabiografico Miyazaki stesso proprio come il pronipote e il loro incontro, ai nostri occhi, pare un perfetto ricongiungimento di due età dell’uomo opposte, unito al messaggio, caro al regista, della responsabilizzazione delle nuove generazioni, il ‘passare il testimone’.
Attorno a questo nucleo formato da due opposti che si specchiano, riproducente il contrasto tra la casa di Mahito lontano dalla città e la torre nel bosco (mondo dei vivi e mondo dei morti, quindi), abbiamo ben due figure materne: la madre del protagonista, morta in un incendio durante la guerra, in una Tokyo attraversata di corsa da Mahito in un’animazione pazzesca per la resa del calore e dei riverberi del fuoco, sia in soggettiva che in terza persona; e la zia materna Natsuko, la madre nuova da accettare, di cui il padre di Mahito s’innamora e che egli mette incinta.
Il protagonista, imbarazzato e incerto, chiama la zia ‘quella che piace a mio padre’ ma non esita un istante a cercarla dopo che lei s’inoltra nel bosco e sparisce misteriosamente: armato di un arco fabbricato da sé e provocato da un famiglio del prozio sotto le mentite spoglie di un airone cinerino, lui entra nel mondo alternativo a due passi da casa sua, seguito da una simpatica vecchia serva di casa.
Gli incontri più svariati si susseguono e non manca in essi la critica al conformismo né l’espressione del pessimismo di Miyazaki rispetto alle ‘masse’, rappresentate dal popolo, divertente ma crudele, dei parrocchetti antropofagi.
Questo film emotivo e carico fino allo spasimo di idee si riempie inoltre di segni, rimandi, visioni che tolgono la pace al protagonista, che ad esempio sogna sempre la madre che lo chiama immersa in onde di fiamme, anch’esse prezioso leitmotiv del film; quasi in un’ipnosi lui rischia di essere sommerso da pesci e rane che lo vogliono far scendere nel loro stagno; figure illusorie, maboroshi antropomorfe, si sciolgono come acqua densa al sole; l’acqua e il vento dominano gli scenari e dettano il loro ritmo, sinuoso o violento, all’animazione, che brilla senza falla alcuna nel rendere i passaggi tra realtà empirica e realtà trasfigurata.
Indubbiamente, questo bisogno di abbracciare ed esprimere in un’enciclopedia vivente, quasi come nei quadri di Bosch, la propria cultura, le proprie tendenze ed emozioni, la propria visione del mondo da parte del regista corrisponde alla coscienza di essere ad una soglia decisiva della propria carriera, l’esigenza di porre una degna fine alla sua ‘fase matura’.
I cinefili più accaniti non mancheranno inoltre di ricollegare i fotogrammi relativi alla discesa di Mahito nel mondo fantastico, alla soggettiva di Guido Anselmi (Marcello Mastroianni) in ‘8 ½’ di Fellini, che però, lungi dal tuffarsi in una dimensione altra, era riportato rovinosamente nel Reale: anche quello era un film di cesura, una porta aperta verso altre soluzioni artistiche, liberazioni formali ed interiori.
Ma dovendo accostare l’ultima opera di Miyazaki ad un altro film-portale, sarebbe giusto ricordare che un primo limite, nella sua carriera, era stato già varcato con ‘Il mio vicino Totoro’. Con quel film, che si ricollega a ‘Il ragazzo e l’airone’ per gli scenari, la specularità dei due mondi dell’ambientazione e il motivo della maternità minacciata, Miyazaki scopriva l’importanza del ‘non detto’ nel suo cinema; con quest’ultimo film, egli preme affinché gli spettatori si gettino nell’interpretazione e nell’osmosi con le immagini: questo sarà forse un fattore per cui la vecchia critica sarà meno capace di comprendere ‘Il ragazzo e l’airone’, che invece risuonerà particolarmente in chi è cresciuto con l’opera di Miyazaki e l’ha scandagliata in ogni suo lato e risvolto.
Antonio Canzoniere