Le directeur comme bateleur: a voler coniare una formula per far comprendere il talento di Jean-Pierre Jeunet, questa sembra la più adatta. Il favoloso mondo di Amélie ci appare quindi come una fiera o un circo e non solo per il rimando diretto a quel mondo, che aveva stregato Fellini a suo tempo, attraverso il personaggio della barista Suzanne (Claire Maurier), ex-acrobata.
Il piacere dell’occhio è grande in questa Parigi rivisitata dalla mente della solitaria incarnata da Audrey Tautou: la capitale francese è immersa in un limbo caloroso che sfrutta al massimo la luce, favorendo l’arancio e il giallo, l’uno vischioso e caldo colore della sensualità (Storaro insegna) e l’altro emanazione liquida della luce, dell’iperattività e della follia (giusto accennata) della protagonista.
Basterà un tocco di verde con le sue cromie metamorfiche a levigare i toni e le superfici o un po’ di rosso ad indicare quanta energia possa ribollire nella testa di Amélie, guastata dalle fisime altrui come la signorina Julie (senza però essere tramortita dalla tragedia).
Come era già accaduto e accadrà nel cinema di Jeunet, il contesto familiare o politico è una forza parassitica che frena la piena fioritura dei protagonisti e rende perciò più bella e piena di valore la loro rivalsa.
Nel mondo di Amélie sono tutti dei fissati ma Jeunet ci regala sequenze perfette a suon di dutch angles, grandangoli e carrellate nel descrivere l’opprimenza dei genitori anaffettivi e paranoici della piccola.
Come la Sabrina (1954) e l’Arianna (1957) di Audrey Hepburn, cui la Tautou si riaccosta senza sforzo per i tratti del suo viso e per l’acconciatura, Amélie rimarrà da sola col padre e avrà bisogno di uscire da sé stessa.
Su questo piano, possiamo vedere come il secondo personaggio della Hepburn appena citato sia quello che più si avvicina alla figlia dei Poulain: entrambe sono delle pianificatrici, pronte a recitare per ottenere i propri obiettivi, desiderano un contatto con l’inesplorato, anche se i loro due bisogni sono profondamente diversi.
Già per cominciare, Arianna è amata dal padre e non ha mai avuto le costrizioni di Amélie: sono la sua età e la sua educazione che, in quanto ostacoli, la spronano a scoprire l’esperienza erotica tentando di sedurre un uomo più adulto, cercando di mostrarsi più matura. Come ebbi occasione di scrivere tempo fa, ‘lei non è diversa da una bambina che si metta addosso i vestiti della madre per sentirsi già donna’.
Il bisogno di Amélie precede l’eros perché nel suo caso si tratta di basilare socializzazione, che la sua mente da introversa amplia e trasfigura come volontà di aiutare gli altri.
In una scena di metacinema finissimo, Jeunet ce la mostra di fronte alla tv: i suoi pensieri si sono già impossessati del contesto e sul piccolo schermo vediamo passare in bianco e nero, col supporto di filmati d’epoca per amalgamare il tutto, la sua vita come ‘Madonna degli indesiderati’, conclusa perfino da un corteo funebre che nulla ha da invidiare alle esequie di Victor Hugo, che furono in Francia un evento nazionale.
Questa Hepburn dai vestiti più modesti, che si fonde con Cupido, Zorro, Trilli e Zazie nel metro di Malle, troppo tenuta a freno, si rivela una perversa dal cuore d’oro, bravissima ad occultarsi, mascherarsi e giocare a fare Dio, salvo poi cadere davanti a Nino (Mathieu Kassovitz), altro introverso con cui sentirà un’affinità elettiva.
Il suo padre vero, non di sangue e un po’ psicanalista, l’Uomo di vetro (Serge Merlin) che sembra un Antonin Artaud rabbonito e mischiato ad un nonno saggio, la spronerà ad aprirsi all’amore, visto che lei può scontrarsi con la vita.
Il lieto fine tenero, con Nino ed Amélie che si incontrano e si avvicinano come dei cuccioli pronti ad annusarsi, prima delle riprese e dei primi piani in tempo accelerato sulla moto di lui, chiude il lato romantico di una fiaba che è anche un omaggio a Parigi come città dell’amore che non ha dimenticato il sapore locale.
Nino, che interroga un uomo nelle fototessere che saranno il primo indizio su Amélie, ha un dialogo che sembra estratto da un film Disney: quando l’omino lo sfotte, diviso in quattro fotogrammi, lo riprende per dirgli che lui la conosce da sempre, nei suoi sogni.
Era naturale, dato che anche lui sia solo e abbia avuto voglia di evitare gli altri da piccolo: è l’altra metà della protagonista, che si trova attratta da lei in un mondo dove tutto sembra interconnesso dalla fantasia, dalle ossessive domande ed idiosincrasie di Amélie e ogni suono (perfino i colpi di bacino della coppia appena creata da lei, riverberati per tutto il bar dove lavora) diventa ritmo musicale.
La freschezza delle idee incide inoltre sul profilmico lavorando di effetti speciali non meno che di filtri, grandangoli e movimenti: si può pensare alla libertà del fumetto come principale ispirazione per questo approccio e avremmo una conferma nella scena in cui, nella cucina, Amélie immagina l’arrivo di Nino in una nuvoletta che si staglia in alto a sinistra.
Lei, abituata a vivere le cose all’interno, sorride all’idea di lui che in silenzio attraversa l’appartamento per sorprenderla accarezzando le tendine. Quando sente effettivamente il rumore, vede con tristezza che è stato solo il gatto. Onore alla delicatezza di Jeunet, che punta con affettuoso feticismo alla resa dei momenti intimi e dei piccoli piaceri.
Questo film ipertrofico, che per l’attenzione ai personaggi secondari avrebbe potuto chiamarsi Le vite degli altri non meno del film di Von Donnersmarck, valorizza al massimo i suoi esterni (gli interni sono stati fatti a Colonia, ma non sono meno incisivi).
Ha avuto piena ragione Nicolao a scrivere che Amélie sia ‘Alice nel paese di Tati’: proprio come il regista di Mon oncle (1958), Jeunet prende posizione e sceglie la vecchia Parigi di Montmartre, quella ancora intatta nel suo sapore popolare e autentico, che Tati vide scempiata nel secondo dopoguerra e cui rispose mostrando i nuovi quartieri in contrasto coi vecchi.
Amélie, dal canto suo, non vede né ci fa vedere l’orrore del modernismo che ha infettato le città europee: i luoghi per cui passa sono selezionati ma senza sembrar turistici. Qui si vuole la magia e la leggerezza dell’urbanismo a misura d’uomo, dove giusto le stazioni possono essere vaste senza far sanguinare gli occhi per i ritocchi dei posteri.
È uno dei pregi de Il favoloso mondo di Amélie: il profilmico in armonia con il montaggio audiovisivo, che vuole la libertà della musica (di Yann Tiersen), dei prestigiatori e dei saltimbanchi.
Che sia forse troppo carico? Eccome ma è un difetto che qui, alla fine, diventa un pregio. Se si vuole un film anche più bello e più conciso, prego rivolgersi a L’esplosivo piano di Bazil di qualche anno più tardi.