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Cinema

Enea

Odio la vile prudenza che ci agghiaccia e lega e rende incapaci d’ogni grande azione, riducendoci come animali che attendono tranquillamente alla conservazione di questa infelice vita senz’altro pensiero.

Lettera al padre del luglio 1819, Giacomo Leopardi

Ciò che fa piacere una volta usciti dalla visione di Enea, secondo lungometraggio di Pietro Castellitto, è l’impressione di avere davanti un giovane regista che ha avuto il tempo di raccogliersi per formare compiutamente una poetica e uno stile, una precisa idea di cinema.

Questo è dimostrato dal fatto che il film ha una tessitura narrativa, estetica e sonora fitta, elegante e compatta, perfettamente in controllo quando trasporta in immagini la costante umoralità dei protagonisti: Castellitto è ormai centrato sia come sceneggiatore che come direttore; sa come lavorare d’ellissi e far oscillare il tono del suo film, scegliendo passaggi fluidi o, all’occorrenza, brusche e trancianti virate sia all’interno di una stessa sequenza che nel transito tra una scena all’altra.

Le sue scelte estetiche vanno in sincronia con la caratterizzazione delle figure che popolano il film, perché il regista sceglie di esternalizzare il loro sguardo. Enea (Pietro Castellitto) e il suo amico Valentino (Giorgio Quarzo Guarascio), così come i loro genitori, non vivono mai ‘sul pezzo’, non sono mai ‘nel momento’: sono sempre in qualsiasi altro posto fuorché nella stanza in cui si trovano a stare o con le persone che hanno attorno. Hanno tutto ma non il necessario per sentirsi realizzati o vivi; nondimeno, sanno come navigare la Roma altolocata che li ha cresciuti, pur sapendo che la pochezza dell’ambiente agisce su di loro aumentando progressivamente, in un crescendo infinitesimale ma inarrestabile, la morsa sulla loro interiorità.

In un film che racconta il vuoto di Roma così come quello di due generazioni a confronto, il fulcro narrativo è l’impresa di Enea e Valentino: i due, legati da forse qualcosa di più d’una semplice amicizia, decidono di diventare corrieri della droga.

È la loro scommessa contro l’ambiente che li ha cresciuti, la decisione che prendono per sfidare la malinconia e l’assenza di uno scopo, per dimostrare che possono circuire e sconfiggere la polita e falsa passività a cui la vita altrimenti li costringerebbe.

Tutti i loro cari, in fondo, sembrano dei moniti ambulanti su che fine non fare o che vita non vivere. Basterebbero come esempio i genitori di Enea: Celeste (Sergio Castellitto), psicanalista che riesce a curare gli altri ma non se stesso, e Marina (la splendida Chiara Noschese), conduttrice che cova verso i suoi colleghi una rabbia ed un’amarezza incredibili e mostra una strenua volontà di non voler vedere ciò che le accade attorno, quasi come con la palma che cade nella loro veranda mentre lei, cuffie e occhi chiusi, è intenta a meditare.

Il mondo filmico predisposto da Castellitto riverbera in mille modi l’assetto mentale di questo strano mondo romano con tutte le sue oscillazioni: le immagini si ribaltano; la camera fissa espone con una felice frizione visiva le curiose esplosioni di Celeste; il volto del boss Giordano (Adamo Dionisi), ucciso dalle pistole di infidi e veloci sicari in moto, si sfalda in dissolvenza, facendoci vedere il fallito attentato ad Enea e preludendo ad una delle scene più divertenti e grottesche del film; la steadycam accompagna fluidamente il protagonista nel locale del suo amico (?) Gabriel (Matteo Branciamore) nel cuore della movida; le scene di baci e d’amore sono tagliate sapientemente da stacchi di montaggio o da luce intermittente, quasi ad intendere cortocircuiti emotivi o battiti del cuore saltati; nel clima di incertezza del dialogo tra Gabriel ed Enea la camera oscilla come un pendolo per poi bloccarsi, una volta che è definitivamente attestata dal protagonista la minaccia di Oreste Dicembre (Giorgio Montanini), ‘ultimo uomo‘ di potere.

Questa abilità tecnica permette inoltre al suono di costituire un elemento fondamentale nella riuscita del film, come giuntura rapsodica tra le scene e i risvolti psicologici; altrettanto importante è che lasci emergere il lato comico e quello fantastico ‘dal di dentro’, come getti di un geyser. Questi due aspetti del film ci sorprendono nel racconto del capitone messo in parallelo col tema dell’uccisione di Dicembre; nella tenerezza dell’ultimo dialogo di Giordano, dall’anima paterna e sensibile; nella scena del cuoco zoofilo; nella morte di Valentino che strappa l’applauso con un personale ’11 settembre’; in quella di Enea in un carrello che spiazza per il suo contrasto interno; in tanti altri piccoli sussulti inaspettati della sceneggiatura che movimentano le cene e gli eventi della mondanità descritta.

Lo sguardo è quello di un regista che gioca in casa e che ha maturato una piena destrezza di fronte alle ‘fibrillazioni’ volute nel ritmo del film. Enea è un lungometraggio malinconico all’estremo, in cui, sul piano emotivo, le risate creano sbalzi come quelli che potremmo vedere su di un elettrocardiogramma: la lucidità di sguardo è dimostrata nell’energia con cui la mestizia del soggetto è messa in immagini.

Roma di certo aiuta il film, con la sua essenza di città placida da cui ci si deve aspettare esplosioni di violenza impreviste: si sente che l’ambiente della Capitale è raccontato da un autoctono, senza il filtro di immaginari datati ed esterni alla sensibilità del regista. In Enea si ha a che fare con una città orizzontale, dove non è possibile spiccare il volo ed è molto facile essere mangiati. Non bisogna farsi ingannare troppo da belle facciate o dalla vendita di una vita dolce: si finisce in una prigione di non detti e sguardi senza orizzonti da contemplare e voler raggiungere.

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