Un giovane cinefilo ha sempre piacere nel ricercare i maestri dei propri idoli. Una volta posato lo sguardo su un film con uno stile capace di parlargli, il nostro vorrà capire l’origine di quella visione unica ed irripetibile con cui una storia (giacché parliamo di cinema narrativo) è stata raccontata: il lato personale di un film, in fondo, è tutto nello stile, nella maniera in cui i pezzi dati dal dialogo e dal soggetto sono arrangiati.
In una pellicola troverà fortissimo il sentimento della luce, in un’altra la fluidità o la frenesia del montaggio, in un’altra ancora l’attenzione alla resa dello scorrere del tempo; in ognuno di questi casi potrà studiare l’origine di queste scelte stilistiche, sia sul piano della poetica personale del regista ammirato, sia su quello dell’analisi di autori precedenti con cui il suo idolo abbia percepito un’affinità elettiva.
Giusto per dare un esempio pratico, immaginiamo che questo cinefilo noti in Effi Briest (1973) e nei vari film di Fassbinder (1945-1982) l’importanza del décor, dei colori e degli specchi come espedienti narrativi non solo eleganti ma anche poetici: basteranno poche interviste per farlo risalire alla fascinazione del regista tedesco per il suo connazionale Hans Detlef Sierck, noto col nome d’arte di Douglas Sirk (1897-1987), uno dei grandi autori del melodramma hollywoodiano.
Come si può vedere in questo caso, alla maniera dei registi americani amati dai Cahiers du cinéma e non considerati dalla critica, Sirk ha avuto il destino di farsi apprezzare oltreoceano ed in seguito d’ispirare, come in un effetto boomerang, tutti i cinefili americani (divenuti poi cineasti) con una base culturale solida fornita dall’influenza europea.
C’è di sicuro, nel metodo dei critici parigini del giornale fondato da Bazin, una capacità di analizzare il fatto formale molto più sviluppata che in America, dove la critica sembra essersi concentrata sul contenuto e sul valore morale del film in sé, non calcolando troppo il fatto che lo stile sia a sua volta un altro contenuto.
Sulla scia di questo approccio, che ha fatto la fortuna del cinema europeo ed internazionale tra le giovani generazioni, potremmo prendere ad esempio della filmografia sirkiana il film Come le foglie al vento (or.: Written on the wind, 1956, ispirato al romanzo omonimo di Robert Wilder.
Il film, lezione magistrale di stile, di luci, di scenografia, di simbolismi, è uno dei lavori più apprezzati della produzione del regista d’Amburgo, un melodramma vertiginoso che può fare a noi spettatori del Duemila un effetto straniante. Questo va detto non solo per il tono esaltato delle vicende ma anche e soprattutto per la densità della trama stessa.
Il Morandini, definendo la pellicola come ‘di un Kitsch così irresistibile, anche se riscattato dallo stile, che sicuramente ha ispirato gli ideatori di Dallas e Dynasty’, ci ‘dà un la’ importantissimo per definire la percezione che nel nostro tempo si può avere di questo film che, per il ritmo esagitato di fatti e rivelazioni, può apparire ai nostri occhi come una serie contratta in un lungometraggio, quando è vero semmai il contrario, cioè che sia stata la televisione ad imparare da film come questo.
La trama ruota attorno ad un quadrilatero amoroso che, dopo una parte iniziale a New York ed un intermezzo a Miami, trova la sua ambientazione in Texas, il che permette ai personaggi, specie quelli della famiglia Hadley, di sfoggiare le loro risorse in fatto di southern malice, topos narrativo dei più usati nel raccontare il Meridione statunitense che molti hanno descritto puntando al gotico, al racconto di grandi passioni, violenze o morbosità.
In questo casato di petrolieri intrisi di veleno, rimorsi, dipendenze e scheletri nell’armadio, finisce la pubblicitaria Lucy Moore (Lauren Bacall), preda amorosa di Kyle Hadley (Robert Stack), erede del magnate Jasper (Robert Keith). Il viziato successore la porta col suo aereo fino in Florida, in un albergo il cui corridoio principale si conclude con l’esposizione di una statua di Amore e Psiche visibile in campo lungo.
L’alcova prescelto per la notte d’amore ha le pareti rosate, è pieno di rose rosse, vestiti lussuosi e i loro colori, per contrasto, valorizzano il blu morbido e sensuale della sera illuminata dalla luna. Lucy, pensierosa, s’affaccia sulla terrazza: è divisa tra la prospettiva offerta da Kyle e dal fascino pacato ma deciso, più intimamente convincente, del migliore amico di lui, Mitch Wayne (Rock Hudson, attore sirkiano per eccellenza).
Mitch e Lucy si piacciono ma Kyle è di mezzo e perdipiù, per ragioni di classe e di denaro, i due non hanno altro che il loro decoro, come Blair McClendon scrive splendidamente: ‘He and Lucy are disciplined and decorous, which sets them apart from the degeneracy of the American aristocracy as represented by the Hadleys. They carry themselves well because there may not be anyone to catch them if they fall.’[1]
Considerato inoltre che nel melodramma la Virtù attira i malvagi come la frutta fa con i vermi e che i guai non arrivano mai da soli, alle insicurezze di Kyle, dedito all’alcool, si sommano i dissidi tra lui e il padre e quelli con la sorella Marylee (Dorothy Malone, premiata con l’Oscar), innamorata follemente di Mitch e disposta a tutto pur di provocarlo e averlo per sé.
Dotata dalla sceneggiatura di dialoghi pazzeschi per il tono piccato e la sagacia, Marylee non ha problemi a far ricadere il fratello nell’insicurezza e nell’alcool (‘A whiskey battle is about all you’d ever kill’, gli dice praticamente seppellendolo) o a riversare addosso a Mitch, con epica passivo-aggressività, tutto il suo desiderio e tutto il suo rancore.
L’empatia di Sirk, specifichiamolo, va perlopiù al personaggio della Bacall, posta spesso e volentieri a sinistra del fotogramma nei duetti con gli altri protagonisti; nondimeno fu proprio con la sensualità e la cattiveria da vixen o southern siren di Marylee che il regista poté sbizzarrirsi: fu lei a diventare iconica e fare scuola, garantendo alla sua interprete un passaporto per il futuro ingaggio in Peyton Place (1964-1969).
Marylee è viziosa e maligna per ripicca contro il mondo, non ha uno scopo ed ogni suo ingresso in scena è accompagnato da un ammiccante ed azzeccato tema di fiati che fa pensare ad un miagolio sornione messo in musica.
In un film dove la fertilità, la paternità e la sensualità sono importanti almeno quanto la classe sociale e il liquore, lei stessa diventa espressione delle forze inconsce della narrazione che, per il tramite di una sua danza provocante e una base musicale sincopata, scelta per richiamare dei battiti cardiaci impazziti, abbattono il vecchio patriarca Hadley spezzandogli il cuore e facendolo cadere giù per le scale, stroncato nella maniera meno discreta possibile.
Il rosso è il colore di questa femme fatale e lo si trova nelle vestaglie, nei fiori, nelle macchine: tutto contrasta con il blu di Lucy e Marylee, cat-woman texana, sfoggia un potere sensuale non indifferente ed una sfacciataggine che gioca con stanze e tessuti, le ombre marcate nei saloni bui della tenuta tentando di sedurre Mitch.
Il talento della Malone ci porta su una strada ben diversa da quella dell’eleganza e dello sguardo puntuto, qui malinconico e pensieroso, della Bacall, iconico look di Hollywood superato in intensità solo da quello più crudele e metafisico di Charlotte Rampling e dagli occhi vispi e cangiati, ferini o liquidi a seconda dell’occasione, di Jeanne Moreau.
Le due cognate del film, come si poteva prevedere, sono divise cromaticamente anche sul piano fisico, non solo nella tonalità dei loro abiti: nel melodramma il corpo parla, cosicché, nel reparto maschile, la solidità morale di Mitch trova la sua espressione nella mimica controllata e nella stazza di Rock Hudson.
Questo stratagemma estetico-narrativo ci fa pensare subito al giardiniere di Secondo amore (All that Heaven allows, 1955), altro film di culto di Sirk in cui Rock Hudson duetta con Jane Wyman nel ruolo principale, poi rievocato da Fassbinder in La paura mangia l’anima (Angst essen Seele auf, 1973), pellicola che impara la lezione sirkiana con un’estremizzazione anche più netta dell’opposizione fisica e generazionale tra i protagonisti.
Questa espressione fisica dell’interiorità, che dà pregio al casting del film, va a braccetto con la fertilità come bisogno e dovere, associata perfettamente al capitale: non c’è differenza, nella mente degli Hadley, tra la capacità procreativa e quella economica.
In un modo o nell’altro, nell’ambiente sovreccitato del Texas descritto, tutti sono assediati dall’idea della procreazione: Jasper Hadley ne parla a Mitch sperando che lui si prenda Marylee; minacciato sul piano della fertilità, uscendo da un bar dopo un brevissimo colloquio col dottore, Kyle vede un bambino sopra un cavalluccio a dondolo che la camera ci mostra in una breve carrellata: la realtà filmica lo stende in pieno sbattendogli in faccia, allo stesso tempo, l’oggetto desiderato (il figlio) ed un simbolo riconoscibilissimo di energia sessuale maschile (il cavallo).
A poco a poco, quasi sulla soglia degli anni Sessanta, la rappresentazione della realtà fisica e della sessualità stava scuotendo dall’interno la narrazione hollywodiana. E che dire allora della rappresentazione del vizio alcolico?
Questo leitmotiv è così importante del film da portarci a fare accostamenti con Notorious (1946) di Hitchcock. In quella pellicola il liquore scorre nella stessa quantità e si possono riscontrare, sul piano dell’intreccio, delle forti somiglianze tra i due film.
Innanzitutto, entrambi ci descrivono l’arrivo di una donna in un contesto familiare (straniero e specificatamente criminale in Notorious) che le diventa nemico; alcool e veleni (quest’ultimi, almeno nel caso di Come le foglie al vento, in senso lato) scorrono tranquilli; c’è un triangolo amoroso in entrambi, con il marito a fare il ruolo del cattivo, contrapposto ad un personaggio positivo che riuscirà a salvare la protagonista e a portarla via dopo un’aggressione subìta (avvelenamento nel film di Hitchcock, schiaffo che causa l’aborto in quello di Sirk); infine, il personaggio più malefico risulta essere in ambo i casi una donna, parente dello sposo: Marylee che è sorella di Kyle ed Anna Sebastian (Leopoldine Konstantin) madre di Alessio, sposo di Elena Huberman (Ingrid Bergman).
A prescindere da queste analogie strutturali, l’impianto determinante di questi film di culto (salvo le implicazioni più nettamente politiche e l’ancoraggio più stretto al noir dell’opera di Hitchcock) è quello del melò, genere che si basa su un intreccio geometrico serratissimo, una gabbia di rapporti che è anche una prigione della mente.
Anni più tardi, con uno smussamento progressivo delle drammaturgie, si sarebbe arrivati alla commistione della struttura melodrammatica con una concezione più astratta del monologo, rasentante il soliloquio interiore, che un grande allievo di Sirk come Almodóvar avrebbe sfruttato ispirandosi anche a Cocteau e arrivando a dirigere film come Donne sull’orlo di una crisi di nervi (1988).
Come le foglie al vento però appartiene ancora ad un immaginario romanzesco del primo Novecento americano che ci riporta ai legami, ai desideri altisonanti e al vento di Gone with the wind (1934), il cui spettro aleggia sul film per via della sua ambientazione meridionale, arrivando pure a fornire l’ispirazione iconografica per la locandina del film di Sirk, opera di Reynold Brown (1917-1991).
Il regista manchego premio Oscar avrebbe fatto propria, in quell’opera magistrale che è Volvér (2006), questa connessione tra la violenza passionale e quella atmosferica, con il perfetto pretesto della ventosità della sua regione d’origine, raccontata come provincia profonda spagnola.
Proprio questa analogia atmosferico-emozionale si manifesta come caratteristica del climax nella seconda parte di Come le foglie al vento, al ritorno di Kyle ubriaco fradicio a casa, prima che parta il colpo fatale diretto a Mitch e deviato da Marylee.
Il suo arrivo, in realtà, era già stato mostrato all’inizio del film con il taglio di qualche fotogramma, la rimozione dei dialoghi ed una base musicale diversa dal pezzo orchestrale che presenterà più avanti nel film: per introdurre lo spettatore in questa storia quasi surreale, si è scelto di usare come incipit sonoro la canzone omonima della pellicola, cantata dai Four Aces e scritta da Sammy Cahn e Victor Young.
Dopo lo sparo dell’inizio, seguito dallo svenimento di una Lucy sfinita dopo l’aborto, un soffio di vento sospinge i fogli di un calendario e si ritorna così al 24 ottobre 1955, giorno in cui la caccia amorosa è cominciata: mezzo assai simpatico per un viaggio a ritroso di una regia che ama mostrarsi con i mezzi del suo mestiere artigianale finissimo.
A volte, va anche detto, questo avviene involontariamente dato che, verso la metà del film, durante la carrellata verso la finestra da cui possiamo vedere in campo lungo il ricevimento all’interno di casa Hadley, la camera si mostra sulla destra, lungo il muro, con la sua ombra determinata dalla luce che proviene da sinistra.
E che dire poi del falso scenario naturalistico del fiume che per Marylee è il luogo dei ricordi più felici dell’infanzia e in cui vorrebbe intrappolare Mitch?
Di certo, lo stacco di sensibilità tra il pubblico del 1956 e quello dei nostri giorni è fortissimo: nondimeno la godibilità, il divertimento, l’intelligenza feroce e la sagacia del film rimangono intatti, pur con tutte le ingenuità drammaturgiche e tecniche, le estremizzazioni caratteriali che diventano punti di forza per la storia raccontata.
Gli ammiratori di Sirk possono di sicuro apprezzare le chicche stilistiche del regista, sue firme riconoscibilissime diffuse per tutto il film. Ad esempio, quando la regia dà il massimo nella frizione ironica tra profilmico e commento sonoro, con l’espressione della violenza commentata da una musica da ballo, come nella rissa scatenata da Marylee nel bar e bloccata da Mitch o nell’uccisione quasi rituale, a mo’ di vera e propria fattura, di Jasper Hadley.
E come non ricordare a questo proposito il pestaggio di Sarah Jane Johnson (Susan Kohner) da parte del fidanzato razzista in Lo specchio della vita (Imitation of Life, 1959)? Non si sbaglierà a vedere in tutte queste scene, che presentano uno spesso livello di distacco intellettuale e critico nei confronti delle vicende narrate, una reminiscenza dello straniamento brechtiano, conosciuto benissimo da Sirk per via del suo lavoro, agli inizi della carriera, come regista teatrale dei lavori di Bertold Brecht.
Certamente, queste finezze non esauriscono l’esperienza sirkiana che, esprimendosi con una regia conscia di sé stessa, è memorabile anche per la sua capacità di far entrare il pubblico all’interno dell’esperienza dei protagonisti e a farne sentire, con grande eleganza, l’intensità delle emozioni con un controllo totale dei toni recitativi e della messa in scena: si pensi all’addio tra madre e figlia in Lo specchio della vita, alle scuse disperate di Sarah Jane su un letto di fiori bianchi deposti attorno al feretro della madre rinnegata e persa per sempre; all’introspezione delicata degli amanti protagonisti in Secondo amore, in lotta contro i pregiudizi e la grettezza del loro ambiente.
Proprio alla luce di tutte queste sfaccettature artistiche noi possiamo affermare che, per i suoi meriti, la sua stravaganza e il suo essere stato chiaramente un divertissement del regista, Come le foglie al vento rimane un film importantissimo nella carriera di Sirk.
Due anni dopo, tolta la Bacall, gli attori protagonisti del film sarebbero ritornati ne Il trapezio della vita (The tarnished angels), tratto da Pylon (1935) di Faulkner e uscito nel 1958. Rock Hudson avrebbe ripreso il suo ruolo di amante dal cuore d’oro; Robert Stack e la Malone sarebbero diventati nel film una coppia altamente disfunzionale in un Sud ancora scenario di passioni contrastate, questa volta nell’alta quota dell’ambiente dei piloti aerei: sempre il Meridione statunitense, sempre una geometria serrata dei sentimenti, lasciata a macerare in un bianco e nero denso a cura di Irving Glassberg, lontanissimo dalla vividezza dei colori di Russell Metty, ingaggiato anni prima per raccontare una storia tempestosa in un Texas di petrolieri viziati e ancorati al passato e incapaci di vivere il presente.
Come le foglie al vento però, questo va ricordato, non ci lascia con un finale tetro nonostante la sua trama fosca e vertiginosa: nel suo happy ending amaro la Virtù trionfa con la partenza di Mitch e Lucy, lasciatisi alle spalle una Marylee riscattatasi in extremis e a cui non rimane altro scoglio che la dirigenza dell’azienda Hadley.
Figliola prodiga, l’ex mangiauomini poggia la testa, sfinita, contro il modellino di un pozzo di petrolio, dominata dal ritratto del padre in alto a destra: il suo destino si racchiude tutto nella compenetrazione di décor, mimica impeccabile dell’attrice e magistrale composizione del fotogramma.
[1] BLAIR MCCLENDON, Written on the Wind: No Good End, The Current (https://www.criterion.com/current/posts/7680-written-on-the-wind-no-good-end), 1 febbraio 2022.