L’entusiasmo con cui l’ultimo film di Mamoru Hosoda è stato accolto a Cannes e presentato dalla critica può essere assai fuorviante. Questo perché promozioni così spinte di film (o libri nel contesto dell’editoria) sono raramente giustificate, col risultato di essere più fonti di sospetto e opere di propaganda che giudizi fondati. Si è perfino sentito parlare di Hosoda come d’una nuova stella polare dell’animazione giapponese, una sorta di ‘nuovo Miyazaki’ (!).
Fatto sta che dopo la visione di Belle (2021, in originale Ryu to Sobakasu no Hime (竜とそばかすの姫,), cioè ‘Il drago e la principessa con le lentiggini’) la sensazione che Hosoda sia stato promosso da un’industria in cerca di un nuovo grande nome da esportare si fa certezza. Il film è di certo la versione più caotica e ‘congestionata’ della celebre fiaba (1757) di Madame de Beaumont che la Disney rese nuovamente celebre con la sua versione animata del 1991, divenuta un film di culto.
La bella del film è Suzu (voce di Kaho Nakamura), una dei tanti ‘cugini’ di Shinji Ikari di Evangelion. Timida, chiusasi fin da bambina nel ricordo della madre che morì tentando di salvare un bambino in un fiume, ha una passione per la musica ed il canto da troppo tempo sopita.
La scoperta del mondo del social ‘U’ le dà l’opportunità, sotto mentite spoglie, di tornare a cantare e vedersi bella con un avatar inaspettato. A complicare la situazione, un misterioso utente con fattezze di drago, ricercato dalla polizia di questo mondo parallelo, fa irruzione in uno dei suoi live scatenando un putiferio. La protagonista si metterà alla ricerca della strana creatura, rischiando lei stessa di venire esposta con la sua vera identità.
A prima vista, anche per come il film è stato presentato al pubblico, questo riassunto potrebbe farlo credere una storia d’amore, in linea con il soggetto che l’ha ispirato: nulla di più lontano dalla verità. La cosa va specificata, visto che Belle contiene troppe citazioni, troppi spunti cari al regista che egli lega assieme facendo sì che si parassitino a vicenda.
Innanzitutto, sono ribadite le mancanze di Hosoda (in questo caso regista e sceneggiatore) nella scrittura dei sentimenti e nel loro posizionamento all’interno della storia. Iniziando dal mondo di ‘U’, meno memorabile del mondo reale descritto nel film, l’innatismo degli avatar dei personaggi, per quanto possa essere un’idea profonda e più apprezzabile in una storia che abbia a che fare col misticismo o con una più netta ricerca spirituale, risulta qui svilito fino ad arrivare al melenso.
Non è spiegato nulla di ‘U’ sia sul lato tecnico, come l’entrata istantanea ed il trasporto dell’utente nel mondo cibernetico, che su quello psico-tecnologico, base implicita per la creazione dei nuovi Io dei protagonisti; né il mondo reale sembra avere, a livello narrativo, delle mancanze così trancianti per giustificare, a livello mondiale, l’accettazione di un mondo parallelo di questa vastità e con queste specifiche implicazioni psicologiche.
La creazione di un avatar da parte di Suzu sarebbe stata molto più sensata ai fini della trama, visto che lei stessa avrebbe potuto definire la sua forma ideale e manifestare nella forma più evidente e al contempo più sottile, quello che avrebbe voluto essere.
I trapassi tra la vita e il social non sono quindi dei più felici ma ancor meno lo è il richiamo estetico alla fiaba de La Bella e la Bestia nella parte centrale del film, lasciato verso la fine per arrivare al tema di un trauma esterno, la cui risoluzione rimanda alla morte della madre di Suzu (mostrata pigramente all’inizio attraverso delle ellissi, senza che avvengano soccorsi) con gli stessi colori dovuti al maltempo.
Lungi dall’essere una figura di attrazione romantica, il drago si rivela un ragazzo vittima di abusi, anche più giovane di Suzu, con cui è disatteso ogni crescendo emotivo su una possibile relazione all’interno del film. Non sono spiegati appropriatamente, proprio come la struttura ed il funzionamento di ‘U’, il suo passato o la sua abilità al computer né perché mai il mondo interiore di un ragazzo giapponese del XXI secolo debba essere un castello eclettico con rimandi fiabeschi.
Il ricorso al secondo trauma come motore aggiuntivo della storia, che si sarebbe potuta reggere come racconto di una fioritura attraverso l’espressione di una passione, peraltro senza il suo climax forzato verso il finale, non fa onore al film né al regista. Lo spreco delle canzoni e la loro mancata amalgama col resto ribadisce questo punto: Belle avrebbe potuto raccontare quanto l’espressione di sé possa essere sviluppata ed amplificata attraverso i social, l’interfaccia di uno schermo ed un avatar.
Si sarebbe potuto mostrare come la sicurezza incamerata grazie all’esperienza del canto potesse filtrare nella vita vera di Suzu trasformando i suoi rapporti, magari con l’aiuto di conoscenze trovate direttamente su ‘U’ con cui la protagonista avrebbe potuto sentirsi a suo agio e non con amici già esperti di computer. Nulla avrebbe impedito la creazione di due binari paralleli nella vita della protagonista, con una linea di demarcazione ancor più spessa resa con una costruzione drammaturgica ad alternanze e compartimenti stagni da demolire verso la fine, a vantaggio della vita vera dopo la risoluzione della dicotomia.
Sarebbe stato, insomma, un bel ritratto di donna capace di riportare alla mente l’Oscar Wilde di The Critic as Artist (1891): ‘Man is least himself when he talks in his own person. Give him a mask, and he will tell you the truth.’
Inoltre, la scelta di richiamare La Bella e la Bestia sarebbe stata molto meglio incanalata incrementando il lato romantico e giustificando quindi l’importanza data alla figura del drago, a prescindere dall’effettiva riuscita della storia d’amore verso il finale. Belle è una grande occasione mancata. Per trovare e capire il meglio di Hosoda bisogna rifarsi, per esempio, ai suoi due smaglianti corti per la saga dei Digimon (1999 e 2000): in questi casi il suo senso del ritmo e la sua energia estetica sono mostrati al meglio proprio perché i suoi sforzi erano concentrati nella resa visiva e non sul piano drammaturgico.
Non per niente, nella maggioranza dei casi, il talento visivo e quello linguistico tendono a controindicarsi per evitare una dispersione del potenziale: Belle è l’esempio che Hosoda, per brillare, deve ruotare attorno ad un polo altro da sé per superarlo, applicando sulla sceneggiatura la sua messa in scena come fosse una metrica.
Regista di talento, dovrà imparare a darsi una struttura per rendere organiche e selezionare le impressioni e i gusti, che da soli non fanno una storia.