Chazelle è un leone e con Babylon (2022) dimostra chiaramente d’essere tornato nel suo elemento. Con il suo ultimo film ha riscritto La La Land (2016), togliendogli il saccarosio e la visione edulcorata nei confronti dell’industria, rendendolo come avrebbe sempre dovuto essere.
Anche stavolta abbiamo a che fare con una storia di sognatori, con una vena sanguigna che determina non solo le cromie calde del film (gestite splendidamente da Linus Lindgren) ma anche il calore e lo slancio della sua sintassi visiva.
Inoltre, i carrelli tanto sofferti da parecchi critici non sono fuori luogo come si è scritto in questi giorni: svolgono tutti una funzione ritmica ed empatica, non solo nei confronti dei personaggi.
La steadycam e la gru della festa iniziale, il montaggio forsennato nei set allestiti nel deserto, la tensione delle prime, cruciali riprese sonore, quella del ritrovo sotterraneo per viziosi losangelini, la fuga, il tono elegiaco del finale: tutto ci spinge a pensare che quelle immagini dicano tanto della storia quanto di Chazelle stesso, che non nasconde la sua energia e la sua gioia nel portare in immagini un soggetto che gli è così caro In Babylon, il bisogno del cinema, non solo il piacere della visione, è dappertutto, sia davanti che dietro la camera.
Questo nuovo paradigma della tecnica, che ha cambiato e potenziato le forme dell’immaginazione, i sogni e le evasioni dei bovaristi del XX secolo, è qui raccontato non solo come luogo di fuga dal reale ma anche come occasione di rivincita personale e sociale, trionfo della fantasia capace di dare un senso alla vita, un senso di appartenenza ‘a qualcosa di più grande‘.
Peccato davvero, come scoprono presto i protagonisti, che il cinema come industria sia ingeneroso verso chi ha fatto la sua fortuna e perdipiù velocissimo a creare e disfare auree luminose attorno ad idoli di carne fragilissimi (a meno che certi cinefili accaniti non sappiano rispolverarli ed apprezzarli dopo un cinquantennio).
Questa macchina tritasogni è sempre stata chiamata ‘Babilonia‘ ed era naturale che Chazelle pensasse a questo riferimento per descrivere la Hollywood selvaggia alla fine degli anni ’20. All’inizio del film, il muto fattura ancora e non si pensa alla distruzione artistica causata dal sonoro che avrebbe vincolato la forma cinematografica al teatro filmato (cosa non solo imputabile a problemi tecnici); più avanti nella storia, la spregiudicatezza erotica, la libertà produttiva e la forza icastica dei divi, dovuta al talento mimico e non vocale, vanno a perdersi con gli anni ’30 che vedono nuovi investitori, una borghesizzazione complessiva e grottesca dell’ambiente, nuovi bisogni drammaturgici che non tutti sanno cavalcare.
Il lettore avrà già capito che Singing in the rain (1952) di Stanley Donen non è lontano, tant’è che viene citato in una delle riprese dei nuovi film dopo l’avvento del sonoro e mostrato nel finale esplicitamente. Il richiamo è potenziato, oltre che dal rimando al film che cambiò tutto, The Jazz Singer (1927) della Warner, soprattutto dai problemi con i microfoni che diventano il cruccio del personaggio di Nellie (Margot Robbie, splendida) o nella scarsa prestazione vocale del divo Jack Conrad (Brad Pitt che passa dal frizzante al malinconico).
Altrettanto importanti però, nella tessitura emotiva e narrativa di Babylon, sembrano essere Chinatown (1972) di Polanski, Boogie Nights (1997) di Anderson e Nuovo Cinema Paradiso (1988) di Tornatore, tutti film ad alto tasso di cinefilia.
Il riferimento al primo dell’elenco può essere fatto per certi dettagli estetici, le luci calde che valorizzano i paesaggi californiani, il rimando ai vizi dei ricchi della West Coast, la fuga malriuscita verso il finale; la celebre scena di Alfred Molina in Boogie Nights sembra avere un riverbero nell’ansiogeno tête-à-tête del protagonista Manuel (Diego Calva, bravissimo) e del suo sgangherato socio con il vizioso e perverso James McKay (un Tobey Maguire inedito); nondimeno, è al film di Tornatore che spetta la citazione più bella in assoluto.
Tornato dopo vent’anni, ormai cinquantenne, nella Hollywood che gli ha permesso un successo vertiginoso e fatto conoscere l’amore della sua vita, Manuel va al cinema, scegliendo di vedere Singing in the rain. Ad un certo punto, arriva alla scena in cui la diva Lina Lamont (Jean Hagen), l’attrice stonata si fa doppiare dal personaggio di Debbie Reynolds, fa sfoggio delle sue tonalità nasali e stonate; in quel momento, lui ricorda Nellie e i suoi tentativi per rimanere a galla nell’industria cangiante, il loro condiviso desiderio di successo, la bellezza sfolgorante di lei nei primi piani dei vecchi film muti, il ballo sfrenato con cui lui, alla festa che fa da inizio al film, si era innamorato follemente di questa ragazza infuocata venuta dal New Jersey.
A questi fotogrammi, ricordi del passato, Chazelle unisce frammenti del cinema del futuro: qui Manuel si fonde con Chazelle che ‘prende il microfono’ e si espone con un atto d’amore totale, ubriaco, verso la settima arte, che nasce come intrattenimento per ‘gli analfabeti e non per gli intellettuali‘ (Werner Herzog).
Il protagonista ama follemente il grande schermo ma il regista ha una marcia in più dovuta alla sua conoscenza tecnica e storica: queste due passioni arrivano quindi ad intrecciarsi e dilatare coscientemente la sequenza finale di Nuovo Cinema Paradiso, in cui il Salvatore adulto (Jacques Perrin) si emoziona con il filmato dei baci salvati dalla censura del parroco e montati dal suo mentore Alfredo (Philippe Noiret).
Sfruttando questo riferimento, Chazelle chiude una storia corale che s’incentra su quattro figure, i cui percorsi si incrociano costantemente: il Manuel sopraccitato, ragazzo messicano che da factotum diventa segretario dell’esplosivo attore Jack Conrad e dirigente di studio con l’età del sonoro; Nellie LaRoy, ‘scappata di casa’ americana all’ennesima potenza, quasi una cugina selvatica e dedita alla cocaina di Holly Golithly che abbia preferito Hollywood a New York; il divo Jack, caotico e affascinante, che vede la terra sparirgli da sotto i piedi con il sonoro, si rattrista per i brutti ruoli ottenuti al calare della sua carriera e per la perdita degli amici più fidati; infine, c’è il musicista Sidney Palmer (Jovan Adepo) che deve la svolta a Manuel ma deciderà di lasciare il cinema per un pubblico più piccolo e affezionato.
A questo personaggio si deve una battuta con cui Peter Greenaway concorderebbe. Durante la ripresa di un musical, Sidney dice a Manuel che la camera è puntata nella direzione sbagliata: dovrebbe essere sui musicisti, non sugli zuccherosi e statici cantanti. Ha ragione da vendere, giacché la forza del cinema sonoro spesso e volentieri non è nelle immagini ma soltanto nel suono (cosa che fa tuttora la fortuna di registi mediocri o pessimi).
Da amante della musica, era normale che Chazelle mettesse tra i protagonisti un musicista ma altrettanto importante nel suo cinema è la componente romantica. La sua maturità di narratore si mostra da un lato per la scansione temporale degli eventi, le ellissi sapienti dei blocchi narrativi ma anche nel raccontare la fascinazione ostinata di Manuel per Nellie, non ricambiata se non con amicizia e riconoscenza.
L’amore della ragazza, in un certo senso, è un sogno esattamente come il cinema: lei è un personaggio costruito per essere una cometa, destinata a sparire (letteralmente) nel buio dopo aver brillato al massimo. A Manuel non resta che il ricordo di quella ragazza selvaggia, tanto che forse solo lui potrebbe dire che lei sia realmente esistita, proprio come la Rose anziana di Titanic fa col suo Jack.
Attorno a loro, dedita a raccontare il mondo del cinema, gli alti e i bassi dell’industria, fare e disfare carriere, abbiamo poi la giornalista Elinor St.John (Jean Smart), dandy in gonnella che fa da riverbero alle opinioni dell’industria, abbellendole con stile. Non mancano inoltre riferimenti ai vizi più sordidi di Hollywood, che per ammissione di Chazelle sono stati solo accennati e riassunti nella scena del sotterraneo in cui Manuel viene trascinato dal personaggio di Maguire.
Per ovvie ragioni ed interessi narrativi del regista, scendere più a fondo non avrebbe avuto senso: Babylon non è un film dell’orrore, un documentario o una trasposizione della celebre serie di libri Hollywood Babylonia di Kenneth Anger (ora in attesa di un terzo volume), bensì un racconto a più voci sulla transizione più traumatica della storia di Hollywood.
Certo, la scena del serpente poteva essere leggermente più breve ma il film, focoso, cangiante e viscerale, non risente dei compiacimenti. Si può quindi dire che il ritorno del regista di Whiplash (2014) sia stato pertanto coronato con un film energico, vitale, bellissimo, in cui gli attori, diretti splendidamente, contribuiscono al fascino dell’insieme e diventano coautori.