8 1/2 film
Cinema

8 ½

  • (Nota dell’autore: una prima versione di questo articolo era già uscita sul sito ladisillusione.com)

Leone, Visconti e Fellini potrebbero perfettamente essere i tre nomi a comparire qualora si volesse restringere il meglio del nostro cinema dell’età d’oro (anni ’50-’70) all’interno di una triade. A collegarli è il fil rouge della memoria: loro sono, in un certo senso, più figli di Proust di molti scrittori che hanno cercato il proprio posto all’ombra del creatore della Recherche

Più si guarda al corpus di questi autori più li si trova fratelli nel guardare al passato, ai “tramonti”, ai ricordi. Di questi tre, Fellini era di certo quello più lontano dalla tragedia: i suoi fantasmi e personaggi rifiutano l’epica ed il melodramma, preferiscono seguire uno spartito interiore, pare vogliano modulare le loro voci musicalmente, secondo un proprio solfeggio. 

In 8 ½ questa natura musicale, melodica del mondo di Fellini raggiunge pieno turgore e si trasforma in armonia nel finale. Dal sogno iniziale di Guido si nota perfettamente una metamorfosi nella struttura: da una singola melodia (quella dell’autore, l’Io del film), si passa ad una serie di motivi (gli Altri) che vengono poi assorbiti e fusi nella coda (la parata), che li abbraccia, li metabolizza, li supera. 

In 8 ½ il dolore non è rimosso ma trasfigurato perché fa da basso continuo ad una magnanimità giocosa, che è l’esatto opposto dell’immaturità. Il Guido Anselmi di Mastroianni è un bambino, un uomo mancato per indolenza ma che si salva col gioco, col suo “saper rimescolare le carte”. 

Volendolo riassumere con un’immagine dei tarocchi, non può che essere il Bateleur (il Giocoliere) e la sua abilità gli fa da trampolino e fossa al contempo. È già in questo superiore al Marcello Rubini de La dolce vita: in quel protagonista e in quel film, che pure fece epoca, si trova un limite che è “lo stesso di tante grandi opere del decadentismo, quella che Adorno chiama la muta contestazione del reale‘(…) (Franco Fortini). 

La dolce vita era anche un “dolce limbo” senza uscita, privo della possibilità di un cambiamento, in un’estetica impeccabile e puntuta che a sessant’anni dall’uscita espone sempre di più il suo lato freddo, astratto, quasi refrattario al nostro sguardo di uomini del 2000: certamente, è in linea con l’intenzione originaria di Fellini, attento nel voler mostrare il bello sperperato nel vuoto umano di quella pellicola senza farci simpatizzare per esso.

In 8 ½, invece, la vena emotiva è più forte perché la resa dei conti con gli affetti è puntuale, inquietante, commossa. Non ci sono didascalismi nel racconto della vita di collegio, di quell’innocenza infantile di Guido che fa da base alla sua creatività ed immaturità assieme. 

Il senso del peccato gli è stato imposto ma non ha infettato il suo nucleo sensuale che si dilata spazialmente nell’harem, che è la proiezione del suo mondo interiore. Già solo da quella scena si capisce quanto gli scritti di Jung avessero risuonato con la sensibilità di Fellini, risultando nella riconciliazione tenera tra il quotidiano e l’archetipico. 

Il piccolo sultano è circondato dalle sue donne e tutte collaborano nella gestione di quel microcosmo affettivo come le abitanti di una masseria, insensibili allo scorrere del Tempo. Già per il fatto di mostrare Guido a capo di quel gineceo, il film rivela di lui qualcosa che ha chiaramente origine da un’esigenza di Fellini stesso: il pensare ed attuare la regia non solo come mestiere o libero e giocoso esercizio delle facoltà creative ma soprattutto bisogno di sentirsi padrone della vita stessa. 

8 ½ concilia il gigantismo dell’Io infantile con un pensiero altissimo sul lavoro artistico: questo fine ultimo del mestiere e della vita di Guido è un segreto di Pulcinella che è raccontato per contrasti, attraverso la frizione tra l’ideale di una vita pacificata, che è il suo obiettivo, con l’indolenza, la colpa, la paura del giudizio altrui. 

Il peso morto che Guido ha dentro è la sua Persona, la maschera che proietta all’esterno, il volto “ufficiale”; è bugiardo verso gli altri quanto con sé stesso per mancanza di coerenza, per il timore di morire socialmente. La Purificazione può avvenire solo accettando i ricordi e le emozioni, non c’è altra pace se non quella interna all’uomo, data dal lavoro psichico e mentale, dalla mancanza di rancore o di eccesso. 

Il film lotta contro la negatività interiore di Guido con la musica di Rota ed il suo ritmo lento che in punti specifici sfocia in un allegro, creando delle correnti o maree che affiorano per tutta la durata. Aiutato dalle luci di Gianni Di Venanzo, Fellini ricorre alle terme come scenario della pulizia psichica (tentata) e al set come emblema del vuoto esistenziale, autentico castello in aria che punta al cielo fisicamente, non in senso interiore e metaforico. Gli spazi in 8 ½ esprimono e non inghiottono, mostrano e non si compiacciono della loro complessità, riducendo i personaggi ad automi o manichini del linguaggio: L’anno scorso a Marienbad è assai lontano.

Il desiderio è espresso in forme primitive, gioiose e selvatiche nella Saraghina, che prelude ai personaggi del Satyricon. Questa creatura ferina e tenera fa già capire che 8 ½ è un punto di non ritorno perché espone il vero Fellini, quel nucleo immacolato della persona e dell’artista che non conosce il concetto del Peccato. Il regista di Rimini non è cattolico, come La dolce vita potrebbe far pensare, ma precristiano. 

La rumba della Saraghina è il passo che sembra annunciare, anche più delle Tentazioni del dottor Antonio in Boccaccio ’70 (1962), la libertà cromatica e i colori pastosi che seguiranno nella filmografia del regista, la goliardia e la gioia di Amarcord, la crudeltà e le penombre della Roma petroniana ed il Casanova che ricerca con il sesso la Donna, perdendosi in un limbo personale. Com’è accaduto spesso ad altri registi (si vedano l’ultimo Welles e Cocteau), per Fellini l’età matura e la vecchiaia hanno comportato la fuoriuscita di nuove invenzioni e cromatismi corposi, che sembrano fuoriuscire allo stato brado. 

Pare normale che dopo 8 ½ ci sia un’altra storia di liberazione interiore, quel gioiellino “malato” che è Giulietta degli spiriti. Altrettanto naturale è che la fase in bianco e nero di Fellini debba finire con un film capace di vincere anche le barriere ideologiche del tempo, vincendo sia l’Oscar che il Festival di Mosca, con quelle atmosfere dense di ombre morbide e sospese, concilianti. 

Nessun altro avrebbe più raggiunto questi risultati nel racconto del cinema dietro la macchina da presa o dell’inquietudine artistica. Se poi parliamo di un racconto di purificazione, solo La città incantata di Miyazaki sembra il titolo più autorevole e giusto per andare a braccetto con 8 ½, anche perché la protagonista Chihiro sembra essere il riflesso inverso, attivo e solare, di Guido: la protagonista di Miyazaki è eroina nel senso canonico perché esce vincitrice dal confronto con un mondo estraneo, non facendosi inghiottire e superando gli ostacoli che le si presentano davanti, trovando in sé la forza di purificarsi dai timori della crescita e sfruttando il suo lato infantile come punto di forza; Guido, invece, non riuscendo ad andare oltre i propri limiti, ingloba il nostro mondo nella sua interiorità, sfruttando questo espediente come ultima risorsa passivo-aggressiva contro l’esterno, non riuscendo né volendo (per comodità e abitudine) chiarire i minimi rapporti quotidiani; non ha che la sua visione della vita e l’interno della sua mente come mezzi utili a farci entrare in sintonia con lui, come strumento per ribaltare la propria vita, rimescolare le carte e darsi la pace.

Questa calma pervasiva, tipica delle anime libere da pesi morti, Leone e Visconti l’avevano raccontata e conosciuta anch’essi. Il primo l’ha vista nella forma dell’orgoglio e dell’onestà di Noodles, underdog tradito ma coerente nella sua scapestrata indipendenza, l’altro l’ha mostrata col dolore del volto sconfitto di Burt Lancaster ed il cadavere di Ludwig II sulle rive del lago di Starnberg. Fellini ha scelto una terza via, quella del corteo festoso e dell’immaginazione che è l’unico paradiso possibile per l’uomo del Novecento. 8 ½ è la vetta di un uomo che non aveva niente da cantare se non sé stesso.

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