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Cinema

Goodfellas

Cu nasci tunnu un pò muriri quatratu

Detto siciliano

Si può non essere d’accordo con Roberto Silvestri quando dice che “Scorsese dà sempre il peggio di sé nel genere biografico” ma è vero che questa branca del cinema narrativo riveli un automatismo piacevole per l’autore: la costante delle storie di ascesa e caduta, che prende il necessario (il sostrato) dalla vena spirituale, quella più tormentata ed eccitabile nell’organismo artistico di Scorsese, senza esserne danneggiata o corrotta.

Goodfellas del 1990 è la cristallizzazione più completa dello Scorsese biografo, fa da summa al lato più felice della sua ispirazione, una sorta di ‘istruzioni per l’uso’ della sua personale antropologia pop.

Si cambiano i cognomi ma il racconto della vita di Henry Hill (Ray Liotta), italo-irlandese di Brooklyn, resta intatto nella traduzione sul grande schermo, operata sulla base del romanzo Wiseguy: Life in a Mafia Family (1986) di Nicholas Pileggi e che tanto rimarrà nell’immaginario da fare scuola: rivincita morale sulla mancata vittoria a Venezia a cura di Gore Vidal, presidente di giuria nel 1990.

Franco LaPolla ha avuto il merito di scrivere parole bellissime su questo racconto di formazione criminale, dicendo che fosse il perfetto contraltare di Fuori Orario e che ‘mentre la pellicola del 1985 sembrava uno scherzo ed era invece un incubo, questa sembra un incubo ed è invece uno scherzo’.

In effetti la conclusione di Goodfellas è semplicissima, è molto rumore per nulla e l’ironia di Scorsese si dimostra nel distacco con cui fa cadere come un frutto maturo il suo protagonista tra i prati delle smorte villette del finale.

Scorsese sul set con Robert DeNiro. Fonte: Tumblr.com

La sua simpatia non va agli individui ma alle dinamiche del gruppo, agli spazi in cui si svolge il quotidiano del branco: la figura intera del corpo senza vita di Tommy (Joe Pesci, meritatosi l’Oscar) nella stanzetta della sua esecuzione non è che la punta dell’iceberg della sua scarsa empatia verso i wise guys.

Per non parlare poi della scena famosissima in cui Henry toglie la pistola ad una Karen esasperata (una luminosa Lorraine Bracco) dopo due soggettive serrate e in un campo lungo ci mostra lui che la fa volare dal letto, con tutta la rabbia di aver trovato non un estraneo ma la propria moglie, impazzita di gelosia, a minacciarlo; o del divertimento in sordina nella scena in cui il giovane Henry viene preso a cinghiate dal padre con una ripresa dal basso in leggero dutch angle dedicata al genitore furioso e alla madre che tenta di fermarlo.

Nulla raggiunge però la sequenza esilarante in cui Karen, che si abitua lentamente alle perquisizioni della polizia in casa, si mette alla tv con la prima figlia e vede sullo schermo uno spettacolo con la canzone Goodbye Tootsie, Goodbye con tanto di fischio che è un invito involontario, quasi inconscio del contesto filmico a far la spia, a fare del whistleblowing, appunto.

Scorsese darà semmai la sua comprensione, anni più tardi, ai gesuiti del delirante Silence (2016) o a certi momenti d’affetto traditi tra i protagonisti di The Irishman (2019).

Foto tratta dal film con DeNiro (Jimmy Conway), Lorraine Bracco (Karen Hill) e Ray Liotta (Henry Hill).

La fascinazione per i rituali e gli ambienti dove crescono i piccoli gangsters sarà poi fondamentale nelle scene dove l’intrigo si sospende, come quella della cena improvvisata a casa della madre di Tommy (mamma di Scorsese nella vita reale) dove ha luogo un understatement stellare della violenza e dell’omicidio (non ancora portato a termine) dello strafottente Billy Batts (Frank Vincent).

Molto prima, Scorsese ci aveva mostrato i criminali che avevano favorito Henry in un movimento lineare della macchina all’interno del Bamboo Lounge, sotto le note di ‘Il cielo in una stanza’ di Mina; più tardi, ci farà vedere l’accesso esclusivo al Copacabana con cui Henry tenta di impressionare Karen e sfrutterà la steadycam per rendere in maniera netta e fluida la percezione dei corridoi e delle cucine, il senso del passaggio dalla strada allo spazio chiuso con un realismo che gli fa onore.

Questo virtuosismo silenzioso ha forse la sua origine nello studio dello stile di Orson Welles e sembra precedere le parole del regista di Quarto Potere (1941) pubblicate solo nel ‘92 col libro-intervista a cura di Bogdanovich: ‘Ecco una cosa che non si può fare con il montaggio: per la claustrofobia ci vuole la ripresa lunga’ (traduzione di Roberto Buffagni, nda).

Vero è però che Scorsese non voglia tanto rendere la claustrofobia quanto la chiusura di uno specifico spazio, si ferma all’impressione del reale. Per sentire il senso di chiusura totale e di opprimenza nell’orizzontalità spaziale nel pedinamento degli attori, meglio rivolgersi a Climax (2018) di Noé.

In questo film sociologico che sembra realizzato da un deejay, dominato dal commento ironico della musica, tutto procede verso l’accumulo, come già scritto da Bertolina che nota il rosso come ‘colore dominante del film’.

Non poteva essere diversamente e questo colore è tanto più importante quanto più in rapporto all’equilibrio realista di tutti gli altri: la fotografia di Michael Ballhaus gioca più sui filtri, i piani e i movimenti che sulle cromie. Siamo ben lontani dalla stilizzazione di Fassbinder che Scorsese ha ammirato per una vita e di cui ha preso il direttore della fotografia, volendolo accanto da Fuori Orario a The Departed (2006).

Altri bei ponti con il film bostoniano che vedeva DiCaprio e Jack Nicholson protagonisti è la canzone Gimme Shelter dei Rolling Stones ed il piccolo ruolo di Michael Hill, fratellino di Henry, dato a Kevin Corrigan, attore bravissimo che diverrà il cugino di DiCaprio nel film più recente e si mostrerà al meglio nei panni del produttore Jackie Moreno nella serie The Get Down di Baz Luhrmann.

Per quanto riguarda il montaggio, la lode al senso ritmico di Scorsese e Thelma Schoonmaker va soprattutto per la seconda parte dove il racconto della paranoia di Henry ci regala sequenze splendide e precede di anni quella anche più divertente di Jordan Belfort, annegato in un’estetica di commedia amara e da videoclip.

Henry decide di tradire.

Vedendo il film si ha davanti la prova di quanto Scorsese non scordi di essere figlio di una generazione che ha fatto esplodere l’emozione del rock: per essere dentro quello spirito non serve parlare della musica, visto che lo stile non è il contenuto e i due possono stringere infiniti rapporti tra loro.

Malick avrebbe dovuto capirlo prima di farci sorbire Song to Song (2017), che pretende di parlare dell’ambiente rock (facendolo malissimo), dando il mal di testa con i grandangoli di Emmanuel Lubezki ed uno stile litugico e moraleggiante, da funzione protestante.

La Grazia non è per tutti: altrimenti già altri avrebbero pensato di mostrare i corpi di un massacro in tanti carrelli sotto le note di Layla di Eric Clapton, mostrare un pestaggio con il sottofondo di Atlantis dei Donovan o girare un disseppellimento di cadavere mentre uno dei mafiosi coinvolti incita a sbrigarsi perché la madre ha fatto i peperoni con le salsicce.

E non scordiamoci neanche di Paulie (mitico Paul Sorvino) che organizza una cucina in prigione, come se gli stenti degli altri detenuti fossero in una galassia distante.

Goodfellas non è che questo: il racconto di una normalità che è preclusa agli altri, un processo di fagocitazione che è desiderato, per ironia, proprio per uscire dal livello degli altri, dei ‘comuni’: è una lenta abitudine con le regole di un mondo nel mondo dove perfino un’ebrea borghese può entrare a costo dello sconvolgimento delle sue abitudini e di una completa assimilazione, senza la visione di ‘outsiders’ nel vicinato.

Qui non si raccontano che le dinamiche all’interno di una bolla in sé completa, legata ad un corpo che sa e tace, per amor del denaro e del decoro, della sua presenza.

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