Miei vicini yamada film Takahata
Cinema

I miei vicini Yamada

Dal manga yonkoma (a quattro vignette) di Hisaichi Ishii, Nono-chan, Isao Takahata aveva trovato un altro stimolo narrativo per il suo quattordicesimo film: si concludeva così, ad otto anni dal primo tassello che era Pioggia di ricordi, il dittico ‘Slice of life’ della sua filmografia, con I miei vicini Yamada nel ‘99.

Per il film si sceglie l’impianto originario del manga privilegiando l’analisi della famiglia: Nonoko, la figlia più piccola, è importante nel film soprattutto come filtro narrativo, visto che il disegno semplificato dei personaggi e dei luoghi sembra venire da una trasformazione ed interpretazione dell’esterno all’interno della sua mente.

È lei ad introdurre, come se il film si aprisse con una filastrocca o una ninnananna, il Sole, la Luna e la nonna Shige, che nella mobilità del disegno rende la luna una spilla per capelli.

La pungente Oba-chan è seguita dalla figlia, mamma Matsuko, che decide di rifare il curry per cena e poi dal padre Takashi che sprona il pigro fratellone Noboru a studiare.

Foto di famiglia. Fonte: Tumblr.com

Dopo queste brevi introduzioni, avremo un film con una struttura perlopiù episodica, dedicata ad ogni membro della famiglia dal padre alla nonna, con una riproposizione delle loro tenere stramberie quotidiane, le pigrizie e le sbadataggini, inframmezzate da haiku di Matsuo Bashō e altri poeti.

Non mancheranno nemmeno degli intervalli fantastici che con Takahata non sono mai distinti dalla realtà, visto che permettono di cogliere sentimenti e percezioni dei protagonisti arrivando a trasfigurare gli eventi: la fantasia, come in Pioggia di ricordi, aiuterà nello scandaglio delle psicologie e dei desideri.

Memorabile è la sequenza dello slittino poi trasformato in missile, su cui gli sposi Yamada, al tempo del matrimonio, si mettono a sfrecciare: i tornanti del loro percorso si rivelano essere i piani della torta nuziale, mentre la Cerimoniera dà loro degli avvisi importantissimi sul matrimonio come barca nella tempesta, con tutte le difficoltà del caso.

Seguendo le sue parole, vediamo gli sposi cambiare veicolo con una fluidità estrema del disegno, Noboru nascere da una pianta di cavolo, Nonoko da uno stelo di bambù (presagio della Kaguya de La storia della principessa splendente), la tempesta della vita interpretata con onde che rimandano ad Hokusai.

Le onde della tempesta. Fonte: Tumblr.com

Queste sequenze, che sembrano uscite dalla mente della figlia minore dopo una rielaborazione dei ricordi di famiglia, presentano un minimo rilievo per le tonalità scure usate per le ombre, accanto al chiarore pallido del disegno: nella maggior parte del film, i protagonisti si stagliano contro un bianco cartaceo con colori delicatissimi, non mediati e con tratti essenziali.

Solo più tardi, nel timido confronto di Takashi con dei motociclisti, si arriverà ad un realismo maggiore nel disegno, per segnare la gravità dell’evento. Non si accadrà nulla di sgradevole per via dell’aiuto della nonna, che prova a convincere il capo della banda a diventare un ‘paladino della giustizia’ per via della sua presenza imponente, riuscendo a far allontanare i tre teppisti.

A Takashi, deluso dalla sua timidezza, non resta che immaginare, in un inseguimento mirabolante, di salvare moglie e suocera da rapitori in moto, fantasticando di essere un eroe come Gekko Kamen, protagonista di un noto serial giapponese del ‘58, con tanto di sigla in sottofondo.

A parte queste sequenze, tra cui bisogna pure menzionare, verso il finale, i protagonisti che cantano la versione giapponese di ‘Que sera, sera’, il film punterà ai fatti minimi della vita: la madre che è svogliata in cucina, la paura per aver lasciato Nonoko in un supermercato durante una gita fuori porta, la famiglia che va incontro a Takashi per dargli un ombrello, le battute trancianti della nonna, Noboru alle prese con lo studio e i primi amori, Takashi alle prese con problemi casalinghi e lavorativi.

Noboru rincorso dalla famiglia dopo una delle sue sparate infelici. Fonte: Tumblr.com

Il Giappone è stato il centro dell’interesse del Takahata maturo e I miei vicini Yamada è una conferma della sua passione, senza concessioni alla tragedia, che pur è centrale tra le sue corde: la malinconia struggente e la tenerezza violenta del suo temperamento artistico sono nascoste sotto il mimetismo stilistico, la variazione minima del tono, la semplicità raggiunta dopo un travaglio nascosto al pubblico.

Qui l’umorismo è favorito anche più che in Pioggia di ricordi per via del soggetto di partenza: nel primo film slice of life il ricordo ed il bisogno di un riassestamento interiore davano più spazio alla meditazione e all’introspezione cosciente della protagonista; qui la famiglia Yamada ci è presentata in una cornice più spessa che li inquadra in una struttura predisposta a cogliere il loro lato buffo, mostrandoli in scene quotidiane più che facendoli parlare con sé stessi.

Testimone annoiato delle loro stranezze, contraltare ironico e silenzioso dei padroni è il cane Pochi, comparsa che guarda agli umani come una creatura che li conosce già e non ha bisogno di indagare oltre.

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