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La Festa del Cinema di Roma ha portato in Italia uno dei film più acclamati del Festival di Cannes di quest’anno e premiato, in quell’occasione, con la Palma della miglior regia: ‘La passion de Dodin Bouffant’ di Tran Anh Hùng.
Ispirato dal romanzo dello svizzero Marcel Rouff, il film ruota attorno ad un cuoco e gastronomo della Francia di tardo Ottocento, il Dodin Bouffant del titolo, interpretato da Benoît Magimel. La vita di quest’uomo sanguigno, elegante e meticoloso è riempita non solo dalla ricerca del sapore perfetto, cui ha dedicato la sua esistenza, ma anche dalla sua stretta cerchia di amici, professionisti della provincia francese dal palato raffinatissimo.
La sua cucina, al pianterreno di uno château immerso nel verde della campagna, è un regno che il protagonista condivide con Eugénie, la sua affezionata, calorosa e sensibile cuoca che lo ha accompagnato per vent’anni. I due sono confidenti, sodali e amanti; la loro relazione è nata dal comune amore per i fornelli, per poi proseguire nella camera da letto di lei e nelle loro conversazioni colte, pregne di reciproca intesa e comprensione.
Eugénie non solo governa il mondo domestico della casa, guidando in cucina o nel castello la serva Violette (Galatea Bellugi) e facendo prendere coscienza alla piccola Pauline (Bonnie Chagneau-Ravoire) del suo naturale talento culinario, che Dodin incoraggerà prendendo la giovane promessa come sua allieva; lei determina il tono di tutto il film e delle sue variazioni emotive: la sua presenza, in sincrono con la fotografia di Jonathan Ricqueborg, detta la crescita e decrescita della luce nei fotogrammi e la luce stessa, a sua volta, indica l’aumento o la diminuzione dello slancio vitale del protagonista, prima felice e appagato per la presenza della sua compagna e poi annientato per il fatto d’averla persa.
Questo avviene perché la presenza di Eugénie si unisce ai colori estivi dell’ambientazione, gli aranci che si spandono o si assottigliano a seconda che lei sia nel pieno delle energie o s’incammini verso un veloce deperimento e, infine, la morte.
La vera protagonista di questo film, la cui prima parte è interamente dedicata alla sua dedizione nel preparare il pranzo per Dodin e i suoi amici, è proprio lei. E per raccontare l’interiorità di questa donna con trapassi fluidi di sfumature, maree di tristezza, sorrisi teneri, dolcezze ed arguzie luminose, chi meglio di Juliette Binoche?
Col suo Dodin, Benoît Magimel gira attorno a questa figura come un orso robusto, signorile e focoso, sotto l’occhio di un regista che fa muovere costantemente la camera, ora con la steadycam ora con carrelli essenziali, scegliendo la camera fissa solo in precisi, decisivi momenti.
Il movimento aiuta soprattutto nel cogliere i gesti della preparazione di pranzi e cene, in sequenze che costruiscono ai nostri occhi, poco a poco, a furia di gesti attenti e ‘colpi di pennello’ impercettibili, il passato e il carattere dei personaggi.
Nonostante il fuoco del forno in casa Bouffant non si spenga mai, non c’è nulla nel film che sia afoso, pesante o infuocato: le emozioni sono incanalate e depurate dal linguaggio visivo, fluidificate in un’unità che rende la storia amabile anche e, forse, soprattutto a chi non abbia l’interesse per il mondo culinario.
Siamo ben lontani dal genere dei ‘film di cucina’: qui si ha a che fare con un film lento, luminoso, fresco e meditativo incentrato su una complicità, l’analisi di due vite congiunte da una passione, un quotidiano specifico che è raccontato con un senso squisito e levigato della forma.
Prossimamente al cinema in Italia grazie a Lucky Red.
Antonio Canzoniere