Vincenzo Profeta (1977) è tornato in questi giorni nelle librerie dopo il suo esordio con La Palermo Male (2021) con un saggio dedicato alla street art.
Il titolo è già un programma, visto che BR ammazzate Banksy (2022, GOG edizioni) è un ‘pumphlet‘ (come scritto dall’autore stesso) in cui è riversato non già il sospetto ma il fastidio per un’espressione artistica che sta sempre più prendendo spazio nel panorama del 2000.
Profeta capta con la veemenza e la fluidità che gli sono proprie il profondo paternalismo dietro al mondo dei graffiti. Percepisce quest’arte, da un alto, come un fenomeno infettivo di gentrificazione di bassa lega delle periferie ed un imbarbarimento dei centri storici dall’altro.
La sua ipersensibilità all’appiattimento artistico, in questo caso volta ad analizzare una forma d’arte chiaramente globalista e borghese, lo porta innanzitutto a comporre l’incipit del testo con ondate ritmiche di disprezzo e il la è dato musicalmente dalla recita delle figure dei patrocinatori della nuova arte civica.
Si parla di ‘Sindachelli, proloco, assessoricchi ala cultura, associazioni cultura e libertà, bandi, bandicini (…)’ e leggendo si torna idealmente alle cadenze magmatiche de La Palermo Male, mentre l’autore cerca di esporci la malafede dietro al supporto politico per la cultura dei graffiti attuale.
Lungi dall’essere una provocazione, la street art diventa nuova arte di regime in cui la capacità tecnica si dimostra inversamente proporzionale al potere trasfigurante dell’artista. Elemento non indifferente è l’arrivo, per via del lato promozionale della street art politicizzata, ad un’accettazione passiva del degrado delle zone più problematiche del tessuto urbano all’insegna di un rilancio social ma non umano, culturale o educativo.
Peraltro, come scrive Profeta, ci si può scordare che i graffiti del terzo millennio arrivino in zone come lo ZEN di Palermo, riuscendo così a plasmare le ideologie di abitanti abituati ormai alla rifrazione totale delle tendenze esterne.
Perdipiù, sul piano estetico, il passaggio dalla rappresentazione di Falcone e Borsellino a quella George Floyd sarebbe breve, visto che spesso queste figure sono accomunate dalla stessa resa anatomica e cromatica: i grandi muri senza aperture degli edifici, periferici e non, ospitano i loro volti che diventano faccioni (ricorda qualcosa?), spesso ripresi senza alcun filtro personale dalle fotografie circolanti in rete o sui giornali.
Si crea quindi una mitologia liberale, zuccherosa, che cancella la possibilità di eventuali temi o soggetti legati ad una filosofia quantomeno divergente: tutto è progressista, tutto è green, tutto è liberale, femminista o pro-legalizzazione nella città nuova che i graffiti cercano di formare distogliendo l’attenzione dal passato della città in cui vengono realizzati.
In un certo senso, si potrebbe aggiungere, questa diffusione sembra andare di pari passo con il minimalismo al saccarosio della corporate aesthetic di matrice americana nell’ambito aziendale, concepita per dare soltanto un’immagine positiva dell’ambiente lavorativo, priva di contrasti, salvo poi far convergere questa compattezza ideologica ed estetica contro ogni possibile nemico dell’archetipo liberale per eccellenza: il famigerato e distruttivo YES MAN.
Ciò che più disturba Profeta è la mancanza del trascendente e del fattore umano e non è un caso che lui arrivi a tracciare, verso la fine del libro, un collegamento tra la street art e la cancel culture, quasi che il panorama culturale volesse cambiare pelle eliminando gli strati temporali passati.
Il Grande Reset artistico cammina spedito portando con sè una cultura ‘anti-figurativa, luterana, distopica, moralisteggiante (…), con la scusa di fermare la deriva neoliberista delle arti figurative, e di debellare il nazionalismo, si annienta e annichilisce ogni creazione, ogni fare manuale, per amore dello sfregio come arte, si talebanizza il gusto‘ dando il destro ad ‘una nuova borghesia LGBT, e apparentemente anti-razzista, ma pregna di un classismo figlio di un’ignoranza ingiustificata‘.
Cosa anche più singolare e quanto mai attualissima, tra i tanti punti toccati da Profeta, è la messa al bando dell’odio che viene tolto dall’esperienza umana ed emozionale perché classificato come ‘tossico’, salvo quello ‘su commissione‘: qui l’autore dimostra, per vie traverse, la sua simpatia profonda e la comunanza di vedute con un suo mito personale, Carmelo Bene, che parla dell’odio come dell’unico ‘sentimento umanoide‘ (Maurizio Costanzo Show, 1994).
Sulla poetica di Banksy, cui è dedicata la provocazione del titolo, Profeta non fa mistero dei suoi sospetti che gli fanno descrivere questo personaggio come una creatura dei grandi circoli londinesi ed un’eventuale operazione di Damien Hirst. Non è però al gran nome della street art, costruito quanto una Greta Thunberg e tendente al Pasquino boomer, che sono dedicate le pagine più intense di questo libello.
Il quinto capitolo ci regala infatti i momenti più personali e ricchi di vissuto che rafforzano la polemica del resto del libro, trattando di un personaggio famoso nella cultura sotterranea italiana: il signor Enzo.
Questo personaggio ribadisce l’interesse di Profeta per le figure della notte urbana, specialmente se contornate di un’aura da ‘stolti in Dio‘ e con l’aspetto di un’interiorità vagante nello spazio e persa nei suoi gesti.
Con pochissimi tocchi l’autore racconta la creazione di un circolo di ammiratori accaniti delle opere dello sfuggente graffitaro, che viveva come un barbone e sembrava, agli occhi degli adepti del suo ‘culto’, come una creatura palermitana al massimo che commuoveva con il minimo sforzo estetico, impugnando un comune pennarello nero indelebile.
L’uomo che scrive ‘BR ammazzate le donne‘, colpendo Profeta e tutti gli aficionados della sua opera, appare nel testo come la risposta più degna alla street art anglosassone, ‘laccata’ e complessa ma senz’anima.
Questa figura sui generis risulta essere, inoltre, quella più coerente con le origini dell’arte di strada, legata fortemente all’adolescenza, alle prove timide ed eversive delle periferie, riuscite male ma proprio per questo pregne di valore: ‘La cosa che stimo di più di tutta questa storia dei graffiti, sono i graffiti brutti, sì, quelli che…insomma…riescono male. (…) Spesso gli autori sono ragazzetti alle prime spruzzate di bomboletta, i curatori li escludono dalle ricognizioni classiche sulla street art, e spesso sono capolavori anonimi, tag sconosciute, orride, storte, fatte male, ma finalmente ribelli, segni delle sensibilità ingenue, affascinate dal mondo della figaggine e dei colori, fatta da gente che non sa disegnare, e non sa gestire il colore di uno spray, che non ha mascherine e proiettori e fa tutto a cazzo di cane.‘
Esaminando questa frangia che compone la parte più autentica della street art lontano dagli occhi di bue mediatici, Profeta dà al signor Enzo un peso particolare perché ai suoi occhi sembra un frammento del passato dall’energia grezza, quasi una scheggia volante di Palermo e del mondo pre-digitale che passa i propri giorni a lasciare i numeri e i nomi degli inquilini di certi palazzi su muri rovinati dalle intemperie.
Questo afflato riconferma lo slancio de La Palermo Male, stavolta con maggiore risalto al dato realistico, visto che nel pumphlet ci sono costanti riferimenti alla cronaca.
Profeta è in fondo un artista-scrittore che ragiona privilegiando i gradi di vitalità di un’opera, non lo stile.
Dalla sua trattazione si evince chiarissimo il fastidio per l’elogio dell’Io così diffuso nell’ambiente artistico, specialmente se tutti sono ora diventati artisti senza meriti né slanci appiattendo il termine stesso e preannunciando la spersonalizzazione e alla diminuzione drastica della forza del lato intimo e materiale nelle branche espressive, che porta come conseguenza al mercato virtuale delle NFTs.
Ad un certo punto della lettura sembra di poter immaginare l’autore, per i termini che usa nel descrivere la sua idea di Arte, all’interno di una bottega di arte sacra nella Palermo del XV secolo.
L’immagine è corretta e non è un’esagerazione, visto che per lui l’espressione artistica dovrebbe far uscire fuori dal recinto della propria Persona, dovrebbe essere un ‘votarsi’ continuo, sia nel senso antico che in quello più recente del verbo. La sua filosofia si troverebbe più nel vissuto di un pittore di tempi ormai lontani che nel nostro presente.
Se alla fine dei giochi le parole di Profeta resteranno sarà proprio per quell’indice di vitalità le accomuna ai suoi lavori pittorici. L’arte ed il pensiero che lui vuole portare avanti è quello di un umanesimo sanguigno che il mondo artistico sta dimenticando e che a noi può far pensare ad una frase, che sa di avvertimento, di Baudelaire: ‘Il se fait un divorce de plus en plus sensible entre l’esprit et la brute‘ (Mon coeur mis à nu).
Questo taglio del cordone ombelicale tra la forza e la capacità di uscire da sé, tra il saper vivere e la sensibilità per i segni di cui è cosparso il reale, per arricchire l’arte e trasmettere ciò di cui si è testimoni, è la morte dell’Arte in quanto pratica all’infuori della comunicazione, del bisogno, dell’economia. Non ci sono neanche più i committenti di un tempo.
A noi non resta che sperare nel risveglio di chi vorrà praticare Arte di fronte alla sciatteria e al mercimonio della Tecnica, cose da cui Banksy e i suoi emuli non ci salveranno. Profeta docet.